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L’Italia qualche classifica la scala: quella sulla flessibilità

«Un contributo alla stabilizzazione della difficile situazione economica da parte dell’Italia», dice Elsa Fornero parlando dal Messico della ‘sua’ riforma del mercato del lavoro. «Tra le misure essenziali per la crescita», Mario Monti definisce il provvedimento. Il rush finale della riforma sta per iniziare, oggi la commissione lavoro del Senato darà il via al libera al ddl che da domani sarà dunque all’esame dell’Aula. Dove con ogni probabilità verrà sottoposto al voto di fiducia.

Ma se, come dicono tutte le statistiche nazionali e internazionali, ultime ieri quelle dell’Istat e dell’Ocse, tra le principali ragioni della recessione italiana c’è proprio l’altissimo numero di giovani disoccupati, è lecito chiedersi se i presupposti del governo rispondano a realtà. Una delle bandiere più agitate è la presunta rigidità del mercato del lavoro nostrano. Eppure è proprio l’Istat a dire che il mercato del lavoro italiano è già tra quelli più flessibili: tra il 1995 e il 2008 l’Italia è «profondamente cambiata» ed è scesa di tredici posizioni nella classifica per rigidità basata sull’indice Ocse, spiega l’istituto nazionale di statistica.

In compenso per i contratti di breve durata, l’anno scorso, c’è stato un vero e proprio boom. E in Italia la precarietà troppo spesso diventa un destino: a dieci anni dal primo lavoro atipico quasi un terzo degli occupati è ancora precario e uno su dieci è senza lavoro. Il passaggio a lavori standard è più facile per gli appartenenti alla classe sociale più alta, mentre chi ha iniziato come operaio in un lavoro atipico, dopo dieci anni, nel 29,7 percento dei casi è ancora precario e nell’11,6 percento ha perso il lavoro.

La ministra Fornero ammette candidamente: «La riforma del governo mira a rendere più stabili i rapporti di lavoro rendendo però nel contempo più facili i licenziamenti per ragioni economiche e disciplinari». Un’altra delle bandiere agitate è l’allargamento delle tutele ai precari che oggi ne sono sprovvisti. Una pia illusione, almeno a giudicare dalle proposte contenute nel disegno di legge.

La novità sarebbe l’«assicurazione sociale per l’impiego» (Aspi), il nuovo ammortizzatore sociale che dal 2017 dovrebbe sostituire cassa integrazione e disoccupazione. L’importo erogato non potrà superare il tetto massimo di 1119 euro al mese, e verrà decurtato del 15 percento dopo i primi sei mesi e di un altro 15 percento nel semestre successivo. Non solo: cesserà di essere erogata qualora il lavoratore rifiuti un’offerta di lavoro dalla retribuzione inferiore fino al 20 percento rispetto all’importo lordo dell’indennità: facendo due conti, e prendendo a riferimento l’indennità massima di 119 euro al mese lordi, potrebbe dunque succedere di perdere il diritto alla disoccupazione se non si accetta un lavoro per 647 euro lordi al mese.

Se insomma fino ad ora si poteva contare su due anni di cassa integrazione straordinaria più almeno due anni di mobilità, con la riforma resterà al massimo un anno e mezzo. Certo la cassa integrazione e la mobilità non assicuravano una protezione sociale per tutti, ma l’operazione del governo più che a un allargamento somiglia a un livellamento al ribasso per tutti.

L’Aspi tra l’altro non riguarda i contrattisti a progetto che potranno contare su una una tantum in uscita di circa 6 mila euro, ma solo se hanno lavorato nei 12 mesi precedenti. Insomma, siamo e resteremo ben lontani dai livelli di protezione europei. E sarà difficile invertire quella tendenza stigmatizzata dall’Istat che racconta l’Italia come un paese a «bassa fluidità sociale, dove le opportunità di miglioramento rispetto ai padri si sono ridotte e i rischi di peggiorare sono aumentati».

da “il manifesto”

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