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Metalmeccanici europei: obbligati al conflitto, ma con lo sguardo ancora alla “politica”

La crisi scuote le certezze, ma l’impostazione politica ereditata dal passato ostacola ogni passo in avanti, come una palla al piede di diemnsioni colossali. Il dibattito tra i metalmeccanici europei, qui sintetizzato da “il manifesto”, pone con chiarezza problemi sindacali, politici, strategici, tutti concreti. La risposta soggettiva, mobilitazione a parte (ma comunque “per fortuna”), è invece ancora legata a improbabili speranze in qualche resipiscenza dell’ex “centrosinistra” europeo. Che appare ancora invece votato al sostegno “senza se e senza ma” di politiche che altrove vengono ormai giudicate idiote, autolesioniste, impoverenti e pricolose.

Guardiamo con attenzione a questi passaggi, però. La “rottura” tra le classi è inscritta nella dinamica della crisi. Si tratta di capire quale è il suo stadio di maturazione a ogni passaggio.

 

Tute blu d’Europa: «Un contratto unico contro le gabbie europee»
Francesco Piccioni
INVIATO A MILANO

«Posso dare una notizia ai compagni tedeschi: Marchionne sta portando via l’Iveco da Ulm e la trasferisce a Madrid. Facciamo ruote per i camion, e da un po’ le stiamo spedendo quasi tutte in Spagna». I metalmecanici, quando si parlano, badano al sodo. Ovvero ai processi concreti, alle condizioni di lavoro e di vita. Dal confronto «Senza diritti è un’Europa a rovescio» vien fuori un quadro netto: nelle fabbriche ci sono due Europe che vanno in direzioni opposte. Più un paese in bilico – la Francia – che ora spera in Hollande per invertire la tendenza.
L’Europa che va (ancora) alla grande si chiama Germania e si trascina dietro qualche paese scandinavo più l’Olanda. Quella che precipita è riunita sotto l’acronomo Piigs e vede gli irlandesi insieme ai paesi mediterranei. Qui il quadro è assolutamente unitario: tutti i paesi sono impegnati nel realizzare esattamente le stesse «riforme strutturali», annullando i diritti del lavoro in nome della competitività, tagliando gli ammortizzatori sociali insieme ai servizi del welfare, comprimendo i salari.
Il rosario sgranato da greci e portoghesi è senza fine, ma la misura aurea del rapporto tra capitale e lavoro – il salario – è chiara. Quello minimo portoghese è stato ridotto del 30%; ora è a solo 423 euro lordi mese, ovvero 360 netti. Nemmeno la pura sopravvivenza visto che «il mercato unico» dell’eurozona mostra ben poche variazioni di prezzi da un paese all’altro. Ad Atene i salari nel settore privato sono stati ridotti del 22%, del 32% per i giovani neoassunti; e del 35 nel pubblico impiego, senza alcuna trattativa con i sindacati. Una riduzione del potere d’acquisto pari al 40%, perché hanno ridotto anche bonus ed esenzioni familiari. In Spagna la «reforma laboral» sta producendo la stessa situazione, mentre la crisi ha colpito per primo il settore immobiliare cancellando tre milioni di posti di lavoro.
Il Germania, invece, l’Ig Metall del Baden Wurttemberg ha strappato aumenti del 4,3% e tra 13 mesi tornerà a battere cassa. Ma le imprese avrebbero dato anche di più pur di mantenere libertà di assunzioni con gli interinali, non essere obbligati ad assumere apprendisti dopo “soli” 12 mesi, tener lontano l’occhio del sindacato dalle questioni organizzative. Il problema per loro è il potere sul lavoro, il resto verrà poi da sé. Ma non hanno vinto loro. Gli interinali (lì pagati il 40% in meno dei dipendenti) avranno aumenti del 15%, gli apprendisti diventeranno “adulti” allo scattare dell’anno.
C’è un disegno dietro questa differenziazione? Non proprio. È «la conseguenza diretta di come l’Europa è stata costruita fin dal 92, dagli accordi di Maastricht», ricorda Maurizio Landini, segretario generale della Fiom, che fa gli onori di casa. Ora il mostro macina vite (suicidi), semina povertà e rabbia là dove c’erano i livelli di vita più alti del mondo, il «modello sociale» più avanzato. «I padroni multinazionali ci mettono un attimo a trovarsi d’accordo, per noi che lavoriamo è molto più difficile». Lo sarà presto anche per gli operai tedeschi, viene ricordato; se i differenziali salariali e di diritti continueranno a crescere, ci vorrà poco perché si comici a delocalizzare verso questi disgraziati euromeridionali che diventano «competitivi» con il Nordafrica.
Il problema è dunque riuscire «a costruire un vero sindacato europeo», non «quella Ces (Confederazione dei sindacati europei, ndr) che fa solo convegni», che «teme un processo del genere perché tanti generali finirebbero sergenti», spiega tra gli applausi Frédéric Sanchez, della Cgt francese. L’obiettivo è quasi ovvio, nella sua immensa difficoltà: un contratto unico europeo. Anche a costo di prendere in considerazione, come misura tampone, quel «salario minimo» che fin qui il sindacato confederale ha visto negativamente, preferendo il contratto nazionale come misura di difesa di tutti i lavoratori. Ma se i salari oscillano tra i 360 e i 2000 euro, non stiamo parlando di un «mercato unico», ma di «gabbie salariali» che rinchiudono da un lato gli schiavi, dall’altro quelli che per il momento (ancora) non lo sono.
La Francia, dunque, è la speranza. Che lì parta una politica che inverte le priorità fin qui seguite. Forse è una speranza eccessiva, ma intanto si prepara un 9 ottobre di mobilitazione. L’intenzione è farne una giornata tale da «pesare sulle scelte europee». Non sarà facile, lo sanno bene. Ma «ma non abbiamo scelta; se restiamo ognuno nei suoi confini nazionali faremo tutti una bella morte». Non è una prospettiva da metalmeccanici, però.

 
 
Sul piano interno, Landini è intanto costretto a smentire le stronzate di Luca Telese, giovane esempio di un giornalismo scooppettaro che piega ogni problema ai suoi oscur calcoli.
 
Il segretario Fiom incontra i leader della sinistra: «Ma i metalmeccanici non si fanno partito»
«La sinistra indichi una svolta»
Puntare sul lavoro e cancellare le leggi di Sacconi e Monti-Fornero (queste ultime votate anche dal Pd). La Cgil proclami lo sciopero generale. I 5 stelle? Li guardo con attenzione
Loris Campetti
Il prossimo sabato a Roma il gruppo dirigente Fiom e una platea di delegati metalmeccanici chiederanno ai segretari dei partiti di sinistra e centrosinistra di spiegare quali idee e programmi hanno in mente per costruire un’alternativa alle politiche classiste e liberiste del governo Monti. Questo appuntamento, a cui si sono detti disponibili Bersani, Di Pietro, Vendola e Ferrero, ha creato un certo parapiglia. Ne parliamo con il segretario generale Maurizio Landini.
Allora Landini, la Fiom si fa partito?
La Fiom fa quel che ha sempre fatto: fa sindacato, e poiché sta vicino alla sua gente si rende conto del peggioramento delle condizioni di lavoro e di vita, a cui sta dando un forte contributo il governo Monti con i suoi provvedimenti contro i pensionati presenti e futuri, contro i precari e i giovani, con lo smantellamento dei diritti e delle tutele, con l’attacco agli ammortizzatori sociali nel pieno di una crisi pesantissima. La nostra gente ci testimonia il solco sempre più profondo con una politica distante dai lavoratori che non si sentono rappresentati politicamente da nessuno. È normale che chi si occupa di rappresentanza sindacale si interroghi sulla crisi di quella politica.
Cosa chiedete ai partiti di sinistra?
Il loro programma, sapere da che parte stanno, se vogliono davvero cambiare questo paese, se pensano che sia l’ora di costruire un’altra Europa, ché quella fondata solo sulla moneta, sul libero mercato e sulla finanza ci ha precipitati in questa crisi. Vogliamo un’Europa fondata sul lavoro e sui diritti e non sulla loro riduzione. Chiediamo una rappresentanza politica che non sia a senso unico, basata sul solo diritto d’impresa. Serve un programma alternativo alle politiche del governo Monti e vogliamo sapere se questa è anche la convinzione di chi si candida all’alternativa.
Lo chiedi a chi, come il Pd, sostiene questo governo, persino nella cancellazione dell’articolo 18?
Per questo chiediamo un confronto. Ci sono leggi sbagliate da cancellare, quelle sul lavoro targate Berlusconi-Sacconi e quelle targate Monti-Fornero. Poi ci sono leggi mai fatte come quella sulla rappresentanza sindacale. Oggi viviamo una situazione del tutto estranea alla democrazia: devo ricordare ai lettori del manifesto le rotture di Marchionne, l’esclusione della Fiom dalle fabbriche Fiat, l’attacco al contratto nazionale? Sono due anni che denunciamo queste cose e dalle forze del centrosinistra non abbiamo ottenuto risposte convincenti. Dicevano che Pomigliano era un caso unico e invece, come sosteva la Fiom, era un grimaldello per ributtarci agli anni Cinquanta, se non peggio. Insomma, esiste o no il problema della rappresentanza politica del mondo del lavoro?
Avete invitato anche Beppe Grillo?
Il movimento 5 stelle ha modalità politiche diverse, ma noi al confronto siamo interessati. Non mi convincono gli attacchi contro la presunta antipolitica, preferisco capire le domande che sottendono la massiccia astensione e il voto a forze che fanno politica in forme diverse. È in atto un attacco alla democrazia nel lavoro e nella società, la risposta non può che cercarsi nell’allargamento della democrazia e della partecipazione.
Ma intanto il Senato ha cancellato l’articolo 18…
Per noi la partita non è chiusa, abbiamo indetto due giornate di mobilitazione per il 13 e 14 giugno, la prima con iniziative in tutte le provincie e la seconda con un appuntamento dei metalmeccanici a Roma, davanti al Parlamento. Non escludiamo nulla per bloccare questa riforma che colpisce giovani, precari per i quali chiediamo un reddito di cittadinanza, lavoratori di cui intendiamo difendere ed estendere diritti e tutele.
Dieci anni fa la Cgil portava in piazza tre milioni di persone in difesa dell’articolo 18. Oggi non si va oltre i presidi.
Calma, noi seguitiamo a pensare che serva, subito, lo sciopero generale. Non siamo noi a dirlo, è il direttivo nazionale della Cgil che l’ha deciso. Non ci sono ragioni per non mettere in campo quella decisione. Non basta: percorreremo tutte le strade per impedire che la crisi venga usata per cancellare diritti e tutele, anche attraverso una raccolta di firme. I referendum si possono fare e anche vincere, come la storia recente insegna.
Che altro chiederete ai segretari dei partiti di sinistra?
Se intendono inserire nei programmi con cui chiederanno il voto la centralità del lavoro, la sua qualità, i diritti connessi. Se ritengono necessaria una diversa politica industriale ed economica orientata a un modello di sviluppo socialmente e ambientalmente compatibile. Persino questo devastante terremoto in Emilia che ha fatto scempio di operai dovrebbe insegnare qualcosa: lo stato deve investire in sicurezza e svolgere un ruolo attivo per impedire la fuga di imprese e multinazionali dalla zone terremotate e dall’Italia. Se non arriveranno segnali positivi, temo che gli appelli al voto, anche se a farli sarà la sinistra, non convinceranno i lavoratori che la Fiom si onora di rappresentare.
 
 
entrambi gli articoli da “il manifesto”

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