La Sixty è un’azienda considerata una delle eccellenze del made in Italy dell’alta moda. Una di quelle aziende, quindi, che in tempi di crisi economica andrebbero difese il più possibile perché, “quando la crisi sarà finita”, sarà uno “punti forti” per poter ripartire. Sul “quando (che ormai è diventato se) la crisi sarà finita” le nubi sono sempre più e, ormai, si sta disvelando fino in fondo la natura strutturale di questa crisi dalla quale (al contrario di quel che continuamente ci raccontano) non usciremo “tornando com’eravamo prima”. Ma non è su questo aspetto che si concentra quest’articolo. Quanto scritto sopra sulle eccellenze, come la Sixty, che sono i “punti forti” su cui basare una (eventuale) ripresa si chiama Politica Industriale. Peccato che, da Roma in giù (Fiat, Alcoa, Ilva docet), sembra proprio che i rappresentanti istituzionali non sappiano minimamente cosa sia una seria politica industriale e cosa stia accadendo nell’economia reale (quella che non sospira per lo spread o per i discorsi di Draghi…). La vertenza della Sixty sta, qui in Abruzzo, a dimostrarlo.
Fino a non molti anni fa, la Sixty viaggiava ad altissimi volumi di produzione. Poi, l’incertezza e la diminuzione costante della produzione sono diventati la realtà quotidiana. Già allora, le operaie, gli operai e alcuni sindacalisti cominciarono a lanciare i primi campanelli d’allarme. Inascoltati. Fino alla svolta, che rischia di portare alla chiusura di questo stabilimento: la vendita al fondo d’investimento Crescent HidePark gestito da CHPI Management, una società d’investimento con sede legale nelle Isole Cayman. Improvvisamente le operaie e gli operai si ritrovarono senza sapere chi fosse la proprietà, venduti senza saperlo e senza alcun rispetto per la loro dignità e professionalità ad un “padrone senza volto”. Ma non si sono fatti trovare impreparati e non hanno rinunciato alla lotta. Dopo 297 giorni di presidio ininterrotto davanti ai cancelli della fabbrica, scioperi, manifestazioni hanno deciso di alzare il livello della lotta. Il 5 settembre scorso Marino D’Andrea e Massimo Di Francesco intorno alle 8 del mattino sono saliti sul tetto dell’azienda, decisi a rimanerci fino all’arrivo di risposte serie e concrete dalla proprietà e dalle Istituzioni. Il giorno dopo l’azienda toglie la corrente elettrica nell’ala aziendale occupata. Scrivono i due operai su FaceBook “… ci dispiace ma interrompiamo qualsiasi trattativa con azienda, stampa e segreterie fino a quando non sarà ripristinata la corrente elettrica nell’ala aziendale occupata!!! …”. Poche ore dopo la corrente verrà ripristinata ma l’azienda non molla, decisa più a far scendere i due operai “ribelli” dal tetto che a chiarire il futuro di tutti gli operai e le operaie. E, infatti, l’8 settembre Marino e Massimo saranno costretti a scendere dal tetto dell’azienda, “con la consapevolezza di avere sulla nostra testa e quella delle nostre famiglie la spada di Damocle del licenziamento e della denuncia penale che significherebbe far diventare la nostra situazione da difficile a irrimediabilmente drammatica” come hanno scritto sulla pagina Facebook della vertenza ( http://www.facebook.com/mimi.feritonellorgoglio ).
Ma qualcosa sembra si stia muovendo, per il 14 settembre viene convocato un incontro al Ministero dello Sviluppo Economico con le parti sociali e la proprietà, le operaie e gli operai si preparano alla trasferta romana tra incertezza, speranza e voglia di non mollare mai la lotta. Alcune ore prima arriva la clamorosa notizia: la proprietà della Sixt chiede e ottiene di annullare l’incontro. La tensione e l’indignazione torna a raggiungere livelli massimi, le operaie e gli operai il 14 settembre alle 8 del mattino tornano ad occupare la hall dell’azienda chiedendo alla proprietà della Sixty di cessare un silenzio che non esitano a definire vergognoso.
Il 15 settembre il presidente della Regione Abruzzo Gianni Chiodi arriva a all’aeroporto d’Abruzzo a Pescara per un convegno sulla crisi economica e sull’Abruzzo, i lavoratori e le lavoratrici Sixty si fanno trovare in sala per incontrarlo dopo mesi di infruttuosi tentativi. Gli operai e le operaie definendo l’incontro “penoso” sono stati fin troppo buoni: costretto dalle urla dei lavoratori Chiodi balbetta alcune frasi di circostanza che fanno comprendere quanto non si sia mai occupato della vertenza Sixty e, probabilmente, a malapena sa che esiste. Dalle immagini del telegiornale locale di una televisione nazionale (sicuramente, quindi, una visione parziale di quanto accaduto, ma che non mi sembra sia stata manipolata dal giornalista) si vede Chiodi mettersi alle spalle gli operai senza rispondere alle loro parole, per poi tornare indietro (rispondendo anche in maniera brusca) quando un operaio gli ha urlato “Presidente Chiodi vergogna”. Un urlo, in tutta sincerità, per quel che si è visto, da considerare giustificato e condivisibile. Un quadro che si completa con quanto dichiarato dallo stesso Presidente Chiodi al termine del convegno ai microfoni del giornalista della stessa televisione: quasi testualmente ha affermato che è bisogna ridurre le tasse per permettere di aumentare i consumi perché, per poter consumare di più, è necessario avere “qualche spicciolo in tasca”, parole che sembrano indicare misere elemosine. Chiodi non sembra aver capito che qua non si parla di elemosine da regalare per permettere ai cosumatori di consumare (e poi, perché pensare ai consumatori soltanto? aveva forse ragione Alex Zanotelli quando affermava che per il Sistema esistiamo solo in quanto “tubi digerenti”?) ma di lavoratori e lavoratrici, soggetti sociali che non chiedono concessioni dall’alto ma rispetto e dignità, chiedono che venga dato quel che è loro e che gli vien tolto giorno dopo giorno.
La lotta prosegue, il 20 settembre è stato riconvocato a Roma l’incontro presso il Ministero dello Sviluppo Economico: le operaie e gli operai ci sono per chiedere che le Istituzioni svolgano finalmente il loro compito fino in fondo e la proprietà la smetta con un assordante e vergognoso silenzio sul futuro della Sixty di Chieti Scalo, venduta ad un “padrone senza volto” nell’indifferenza di tanti, troppi e che sulla sua testa vede pendere la spada di Damocle della “delocalizzazione in Cina”. Ma Marino, Massimo, tutte le operaie e gli operai non si arrenderanno e continueranno a lottare a testa alta.
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