Va ricordato che si tratta di un servizio pubblico, che la società – oggi trasformata in società per azioni – è comunque per intero proprietà dello Stato, ha circa 150 dipendenti sparsi su tutto il territorio nazionale perché deve garantire (come i carabinieri e le Asl) le possibilità di comunicazione per tutti i cittadini del paese.
Un luogo in qualche modo istituzionale e “di servizio”, che già da tempo si è andato trasformando in una banca (in un ufficio a parte), in venditore di libri (best seller da supermercato, non certo editoria di qualità) e stronzate varie. Pur di far soldi…
Ma il cliente tipo delle poste, ora che le bollette si possono pagare con il conto online o in altri cento posti (pabaccherie, banca, ecc) è pur sempre il pensionato povero. Quello che non ha confidenza (o non può comprarsi) con le nuove tecnologie informatiche, che vive di poche cose e segue ritmi sempre uguali.
Buttargli lì davanti lo specchietto delle allodole della speranza di fortuna a buon mercato diventa quasi un obbligo a versare la “tassa sulla speranza” (come vengono chiamate tutte le lotterie da quando il re Borbone di Napoli inventò il lotto, non sapendo – o non potendo – più introdurre nuove tasse).
La lettera di un’impiegata di Taranto – città risvegliatasi improvvisamente alla vita civile intorno alla durissima vertenza Ilva – rompe il silenzio e fa partire lamobilitazione contro questo schifo. Non il più puzzolente del paese, ma certo tra i più simbolici di cosa sia il potere oggi e qui.
Da La Stampa, l’articolo di Giusi Fasano.
Trentatrè anni di sportello in un ufficio postale di Taranto e mai una lamentela. Non che abbia funzionato sempre tutto alla perfezione, s’intende. «Beh, quest’Azienda è cambiata davvero tanto e da brava e affezionata “facente parte del gruppo” ce l’ho messa tutta per seguire e adeguarmi al cambiamento» dice lei, impiegata storica assunta ai tempi di Poste e Telegrafi. «Adesso però mi pare troppo» scrive in una lettera carica di amarezza spedita a due sindacati di categoria. «Troppo». Perché «io il Gratta e Vinci non lo voglio vendere. Perché Poste Italiane si abbassa a questo? Io non credo che tutto quel che non è nettamente fuori legge sia legittimo e corretto. Stanno nascendo comunità di recupero per la dipendenza del gioco d’azzardo, stiamo vedendo famiglie compromesse da questo vizio che dà dipendenza. Perché la mia Azienda vuole incoraggiarlo?» si chiede la sportellista. «Io non vorrei che mi si chiedesse di andare contro la mia morale in modo così spudorato».
La lettera dell’impiegata che vuole rimanere anonima ma della quale i sindacati conoscono nome e cognome, è diventata un caso. I sindacalisti ne hanno fatto un volantino diffuso in tutte le sedi delle poste di Taranto e provincia, la gente si è fermata a leggere, riflettere, discutere, i colleghi della donna sono divisi in «pro» e «contro», le parole della sportellista sono finite sui siti di «Ugl comunicazioni» e «Uil poste» e sulla questione si schierano con le considerazioni della lavoratrice anche le associazioni dei consumatori. «È giusto che le Poste si pongano il problema di cui parla questa dipendente» valuta il presidente nazionale del Codacons, Carlo Rienzi. «Credo che la signora fra poco andrà in pensione» immagino. «E allora la invito, dopo, a portare la sua battaglia da noi».
A dire il vero più che una battaglia, quella dell’impiegata era una riflessione da «sognatrice», come scrive lei, «una che crede ancora che possa esserci un mondo migliore».
«La collega che ci ha scritto parla di un mondo migliore perché più etico e io credo che abbia ragione» la sostiene Marcello Laezza, segretario provinciale di «Uil Poste». «È innaturale vendere gratta e vinci a pensionati che incassano pensioni misere. È come vendere speranze. Ormai piazziamo di tutto, dagli aerosol ai detersivi. Nessuno costringe gli sportellisti a vendere ma se l’ufficio arriva a un certo budget scatta un premio. E i soldi di questi tempi fanno comodo a tutti, quindi c’è chi si adegua senza farsi troppe domande e chi invece non ci riesce proprio».
Le difficoltà più grandi, è ovvio, sono di chi ha vissuto il cambiamento delle Poste, soprattutto dal 1998 in poi quando da ente pubblico economico sono diventate società per azioni. «Per i lavoratori con decenni di servizio è dura abituarsi a certe trasformazioni» ragiona il segretario di «Ugl comunicazioni» Francesco d’Eri. «Io non punto sulla questione sindacale, ne faccio invece un problema etico e morale. Direi che le Poste devono rimanere soprattutto una società di servizi, poi tutto il resto».
Scrive l’impiegata nella lettera: «Non mi sono scandalizzata del cambio di marcia che Poste Italiane si è data. Che non si potesse fare a meno di entrare sul mercato era chiaro. Ma questa scelta ritengo si basi su una debolezza dilagante che disconosce l’etica nelle azioni aziendali». Dice il presidente di Adusbef Elio Lannutti: «Comprensione e plauso per questa signora che meriterebbe un premio per il suo sussulto di dignità e responsabilità e per le sue parole chiare come più non si potrebbe. Condivido tutto quello che ha scritto, trovo che siano pensieri profondi, duri ma una volta tanto senza intenzione polemica».
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