Per fortuna, in Italia ci sono ancora istituti che fanno della buona ricerca. E il Censis è uno dei migliori, tra questi.
Stamattina è stata presentata la seconda indagine sulle prospettive del welfare realizzata insieme al Forum Ania-Consumatori.
Da cui risulta, secondo l’abstract, un “crollo” della fiducia nel welfare pubblico: “per il 63% dei cittadini è inadeguato, l’86% vuole che sia modificato per dare copertura ai nuovi bisogni, il 54% chiede di tagliare le spese inutili, per l’86% è necessario far pagare i servizi in relazione al reddito delle persone che li utilizzano”
Cresce la sfiducia nell’attuale sistema di welfare: il 63% ritiene che non offre una buona copertura per i diversi rischi, per il 75% non riesce a contenere le diseguaglianze sociali, per il 79% costa troppo al bilancio pubblico. Si nota qui l’intreccio inestrcabile tra paure e calcoli vissuti nella propria esperienza quotidiana e influssi del “discorso egemonico” che enfatizza “i costi” senza considerare i vantaggi sistemici. Detto altrimenti, che il welfare comporti dei costi è indubbio; ma perché non vengono più calcolati i benefici? Ogni prestazione sociale legittima (chiaro che nessuno difende il falso cieco che guida la macchina o il falso invalido che va a sciare…) libera infatti energie impiegabili nella produzione di ricchezza. Gli asili nido, per esempio, consentono alle donne di andare a lavorare; la sanità pubblica abbrevia i periodi di malattia in cui un lavoratore viene esentato dal lavoro. Ecc. Ma non se ne parla più.
Considerati questi presupposti, non stupisce dunque che per l’86% degli italiani il welfare debba essere “assolutamente cambiato” per rispondere meglio ai nuovi bisogni di protezione, come la non autosufficienza.
Dalla ricerca emerge che i cittadini non sono affatto stupidi: non vogliono solo tagli, ma soprattutto razionalizzazione ed efficienza. Che non sono affatto prerogative del “privato”, se il management “pubblico” assume le responsabilità di direzione nel suo senso più alto e non come “privilegio dispotico”.
Il 62% degli intervistati pensa infatti che – ad esempio nella sanità – le manovre di finanza pubblica degli ultimi anni, Monti compreso, hanno tagliato i servizi, ma senza eliminare sprechi o razionalizzare le risorse.
Autotutelarsi diventa una strategia obbligata Il 63,6% degli italiani pensa che nel futuro l’ampiezza della copertura pubblica avrà una contrazione. Le famiglie reagiscono a questa crescente sfiducia appoggiandosi ancora di più alle forme tradizionali di autotutela, senza impossibili svenamenti per ricorrere al “privato”.
Per tutelarsi dal rischio di eventi imprevisti l’83,9% cercherà di risparmiare, l’80,4% di assumere comportamenti molto cauti (ad esempio, adottando stili di vita salutari, oppure facendo controlli medici periodici), il 76% confida nella capacità di adattamento della famiglia. Tutte forme a “bassa spesa”.
Molto minoritaria è invece la quota di coloro che ritengono opportuno (e possibile economicamente) l’utilizzo di strumenti specifici come le polizze danni (32,3%), le polizze vita o i fondi pensione (30,4%). Già ora le forme di autotutela privata, in ogni caso, raggiungono un valore di quasi 28 miliardi di euro annui per la spesa sanitaria privata (+2,3% nel periodo 2008-2011) e di circa 11 miliardi di euro per l’assistenza privata per anziani e non autosufficienti. Un business importante, ma che sembra poco espandibile in tempi di crisi.
Quali suggerimenti arrivano, però, per migliorare il sistema di welfare?
Oltre il 54% dei cittadini parla apertamente e con grande pragmatismo della necessità di razionalizzare il welfare pubblico, selezionando i servizi e gli interventi necessari alla popolazione e tagliando il resto. Per l’86% è necessario far pagare il welfare in relazione al reddito delle persone che lo utilizzano. Un principio che ha una sua logica, che deve però fare i conti con l’eventuale applicazione pratica: quali sono gli scaglioni di reddito oltre cui scatta una maggiorazione dei ticket? Se i livelli sono quelli delle attuali aliquote Irpef, per esempio, il disastro per la salute pubblica è assicurato. Come si vede, la “strumentazione tecnica” con cui rendere concreto un principio non è affatto un problema “tecnico”, ma di scelte.
In questo quadro generale, si aggrava l’asimmetria tra la copertura di welfare e i bisogni di alcuni specifici gruppi sociali. Le zone d’ombra della protezione sociale riguardano al momento i Neet (giovani che non lavorano, non studiano e non cercano occupazione; non per caso si tratta di una definizione fatta soltanto di negazioni), i nuovi bisogni di tutela dei migranti, la non autosufficienza degli anziani. Non autosufficienza, ci pensa la famiglia. Paradigmatica della inadeguatezza del nostro sistema sociale è la condizione degli anziani non autosufficienti che, secondo stime del Censis, ammontano attualmente a 2,2 milioni, il 3,9% del totale della popolazione italiana.
In Italia è ampiamente diffuso un modello di assistenza familiare, tanto che i familiari stretti rappresentano i caregiver nel 73,5% dei casi. Il problema è che quasi in un caso su tre (il 29,3%) il carico assistenziale viene assorbito interamente dalla famiglia dell’anziano. Per questo motivo, gran parte degli italiani sottolinea l’importanza del potenziamento dei servizi di assistenza: il 43,8% indica l’assistenza domiciliare, il 34,1% richiede soluzioni di sostegno economico diretto alle famiglie. La maggioranza degli italiani è ormai disperatamente convinta che per affrontare la non autosufficienza dovrà contare solo sulle sue forze, perché i costi sono alti e la copertura pubblica scarsa: risparmiando, integrando l’assistenza pubblica con l’acquisto di servizi privati, oppure assicurandosi contro la non autosufficienza. Solo il 15,2% ritiene sufficienti gli attuali servizi pubblici.
E non va meglio per la condizione giovanile, per quelli che il Censis chiama ormai “bamboccioni per forza”.
Sono oltre 6,9 milioni (il 52,9%) i giovani di 18-34 anni che vivono con almeno un genitore, mentre i Neet sono 3,2 milioni (il 23,9% dei giovani con età compresa tra 15 e 34 anni). Un’autentica bomba ad orologeria di potenza crescente, per cui non si fa assolutamente nulla in termini di politiche attive (a meno di non voler considerare tali i contratti di apprendistato o a tempo determinato partoriti dalle fervide menti – in seccessione temporale – di Treu, Sacconi, Fornero).
Per questa categoria risulta dominante il problema del lavoro e delle relative difficoltà ad accedere a questo mercato. Il 60% degli italiani – al contrario dei succitati “ministri contro il lavoro” – pensa che sia ingiusto pagare meno o dare meno tutele ai giovani che entrano per la prima volta nel mercato del lavoro.
Tuttavia, per contrappasso dialettico e mancanza di alternative praticabili, quasi il 92% ritiene che per i giovani sia opportuno “accontentarsi del primo lavoro che capita”, anche se a basso reddito o non adeguato al titolo di studio, pur di entrare in gioco.
Non a caso, riguardo gli interventi per i quali sarebbe importante migliorare il welfare attuale con nuovi strumenti monetari (come sussidi, servizi, ecc.), oltre il 37% dei giovani richiama la precarietà del lavoro, il 29,2% la perdita dell’occupazione e il 33,6% la disoccupazione di lunga durata.
I nuovi bisogni dei migranti. Vivono in Italia con l’ambizione di migliorare il proprio status economico, mettere radici costruendo casa, fornire una buona istruzione ai propri figli. Sono ottimisti – e non potrebbero sopravvivere se venisse meno questa loro fede – sulle loro chance di integrazione, visto che quasi il 79% pensa che nel mondo del lavoro i più bravi non rimarranno confinati in lavori umili e a basso reddito, mentre il 53,2% ritiene che i più abili emergeranno nell’imprenditoria. Considerando i servizi di welfare cui si accede tramite lo strumento Isee, i migranti richiedono più asili nido e scuola rispetto alle famiglie tradizionali (richiesti dal 44,8% contro il 30,3% degli italiani, che si concentrano sui servizi socio-sanitari). Dall’indagine emerge poi un rischio di competizione tra questi soggetti sociali, visto che il 48% degli italiani pensa che i migranti prendano più di quello che danno al sistema di welfare, mentre solo il 16% ritiene che questa popolazione dia più di quel che riceva in cambio.
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