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Piombino. La chiusura incombe sulle acciaierie. Migliaia di posti a rischio

 

Una mazzata sul piano occupazionale e sociale potrebbe abbattersi a breve su Piombino e affossare l’economia della Val di Cornia. L’altoforno potrebbe bloccarsi il 30 settembre ed entro febbraio tutti gli altri impianti. Così si fermerebbe non solo il cuore di un’intera città, ma il secondo polo siderurgico italiano dopo l’Ilva. Tra le ipotesi di salvataggio la “vendita spezzatino”. Lo storico stabilimento che produce acciaio da oltre cento anni – secondo a livello nazionale solo all’Ilva di Taranto –, rischia infatti seriamente di chiudere i battenti. E di lasciare quindi senza lavoro circa 4mila persone (se si considera anche l’indotto). Il cuore dell’economia di un intero territorio sta per smettere di pulsare. E qui, in un centro di appena 35mila abitanti, lo scenario paventato per la città di Taranto diventerebbe certamente realtà: se chiude l’acciaieria, chiude Piombino. La crisi industriale incombe sull’acciaieria di Piombino dal 2003 quando era di proprietà della famiglia Lucchini. Le acciaierie prima pubbliche, come l’Ilva di Taranto, furono privatizzate e dopo meno di dieci anni si è cominciato a parlare di crisi. Anche in quel caso piano di ristrutturazione fu realizzato dall’allora commissario Enrico Bondi (sempre lui, oggi all’opera sull’Ilva) e si pervenne all’acquisizione dello stabilimento da parte della Severstal, la società russa dell’acciaio di proprietà del magnate Aleksej Mordašov. Ma anche la proprietà russa dopo pochi anni ha annunciato il proprio disimpegno, lasciando di fatto il controllo della ex Lucchini ad una cordata di banche (Mps, Intesa Sanpaolo, Bpm, Unicredit, Bnl-Bnp Paribas, CariFirenze, Credito bergamasco, Banco popolare e Natixis), affinché si trovasse al più presto un acquirente.

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