E raramente uno nel suo ruolo ha ricevuto così tanti “ma piantala…” come stavolta. La sortita, sul piano economico, è stata triturata da un’intervista a Giovanni Mazzetti, su “il manifesto”. I numeri, sul piano statistico, sono stati mostrati da Valentina Conte su Repubblica. In Italia già lavoriamo molto più della media europea, ma la produttività è più bassa. Quindi non dipende dall’orario di lavoro.
In pratica, Squinzi è inciampato nel classico incidenti dei troppo furbi: sparare cifre e concetti confidando che “il pubblico” sia troppo ignorante per capire. Naturalmente, o per fortuna, gli va male…
«Strozzano la domanda, poi tremano per le vendite»Francesco Piccioni
La sortita di Giorgio Squinzi – «lavorare di più, come orario, per ridurre di 10 punti lo svantaggio di pressione fiscale con la Germania» – richiede pareri esperti. Giovanni Mazzetti, docente di economia politica, stronca il ragionamento alla radice. «È un’argomentazione senza logica, non c’è nessuna relazione tra le due cose. Lui parte dal presupposto che, se si lavora di più, aumenta il reddito. E quindi, se le tasse non aumentano, diminuisce l’incidenza delle imposte. È una castroneria. Se aumenta il reddito, le tasse se ne portano via una percentuale».
È tutto sbagliato?
Squinzi dice una cosa giusta: la pressione fiscale è troppo elevata, incide sui consumi privati e quindi c’è un effetto negativo sulla domanda. Bisognerebbe diminuire le imposte, ma subito vien fuori l’obiezione degli economisti conservatori al governo: «allora bisogna diminuire anche la spesa pubblica». Quando lo si fa, l’effetto negativo sulla domanda è automatico. La spesa pubblica funziona, come sostegno alla domanda, sia produttiva o meno. Un sacco di opere poi non utilizzate (strade, ospedali, scuole, ecc) hanno aumentato il Pil, creato lavoro…
È un po’ impopolare, oggi…
Si potevano fare cose migliori, certo. Si doveva affrontare il problema della soddisfazione dei bisogni, ecc. È la qualità della spesa che va controllata, non l’entità. Ogni spreco va sostituito con qualcosa di utile, non semplicemente tagliato. Altrimenti è meglio non tagliare…
Suona paradossale…
Viviamo in una realtà paradossale! Siamo in un mondo ricco, in cui la penuria è una bestemmia della ragione; ma c’è ed aumenta. Abbiamo in Europa decine di milioni di poveri.
Torniamo a Squinzi. Brutalmente, dice «10% di ore di lavoro in più»…
In realtà dice «dobbiamo recuperare la produttività». Un altro grave errore logico. La produttività è misurata dal reddito diviso la quantità di lavoro erogata. Se aumenta il lavoro, il denominatore, non è detto aumenti davvero la produttività.
Facciamo un esempio concreto?
L’automobile. Oggi stanno usando molto la cassa integrazione. Se li facessero andare in fabbrica, visto che poi quelle automobili non vengono vendute (non si trasformano in Pil), l’unico effetto è che aumenta il lavoro, ma non il reddito. Quindi la produttività diminuisce. Da noi la produttività è stagnante perché non c’è soddisfazione dei bisogni, non perché non si lavora abbastanza. Anzi, chi lavora, lo fa anche troppo.
Quando la disoccupazione cresce, far lavorare di più aumenta la disoccupazione?
Esatto. «Loro» hanno appena scoperto che la riforma delle pensioni tien fuori dal lavoro i giovani. Bella scoperta! Il loro presupposto è che sia sempre possibile espandere il lavoro; quindi, se tengo anche i vecchi, che cambia? Invece il problema è quello posto da Keynes: a un certo punto non è più possibile creare lavoro salariato su scala allargata. Se fai lavorare di più le persone, puoi solo aumentare la disoccupazione.
La «luce in fondo al tunnel» nel 2013 o «metterei la firma se ci fosse crescita vera nel 2015»?
Ha ragione Squinzi, ha torto Monti. Ma significa che anche il 2015 è solo una speranza… Il punto fondamentale è che va rovesciata la politica economica, con una profonda modificazione della storia degli ultimi 30 anni, in cui non si preso atto del problema emergente. Il deficit strutturale non è stato più accettato, e si è instaurata questa situazione paradossale: si è impedito alle banche centrali di finanziare il debito pubblico, e quindi si è arrivati al blocco. Ora stanno propinando, proprio come in Inghilterra e negli Usa, politiche conservatrici e deflazionistiche. Immaginano che così si ricrei una condizione di fisiologica riproduzione della società. È una balla.
E gli industriali non lo sanno?
Sono loro che fino al giorno del crollo hanno sostenuto questo tipo di soluzione. Ora piangono perché subiscono gli effetti di quello che hanno voluto. Vorrebbero eliminare gli effetti, questo il senso delle parole di Squinzi.
Ragionano tutti come un’azienda singole; ma se fanno tutti la stessa cosa funziona lo stesso?
No. I conservatori pensano che solo la vendita produca arricchimento; non riconoscono che è la spesa la condizione per l’arricchimento. Senza spesa non c’è manifestazione dei bisogni, non c’è domanda, non c’è produzione. Prima comprimono la domanda, poi si lamentano che non vendono…da “il manifesto”
Italia al top per le ore lavorate, ma indietro per produttività
L’italiano medio lavora 1.774 ore l’anno contro le 1573 della zona euro. I norvegesi sono quelli che hanno maggiore “resa” pur essendo terzultimi nell’Ocse per tempo passato al lavoro
di VALENTINA CONTE
Dimezzare lo spread di produttività con la Germania è il “sogno” del presidente di Confindustria. E per farlo sarebbe utile “lavorare qualche ora in più”, suggerisce Squinzi. Sì, ma quante ore? “Se vogliamo recuperare il 10%, si fa presto a fare i conti”. Ma poi i conti non li fa. E in effetti non è così agevole farli.
MESSICO-NORVEGIA
A leggere i più recenti dati Ocse emerge subito un paradosso. Nella classifica dei 34 Paesi membri, il lavoratore messicano è al top per ore annue dedicate al suo impiego, ma ultimo in produttività. Indefesso, sebbene poco efficace. Al contrario, il collega norvegese è il più produttivo in assoluto, un superman nel suo campo. Ma in compenso è al terzultimo posto per ore di lavoro. Molto tempo libero e grande contributo al Pil nazionale. Un vero sogno. E in Italia?GLI STAKANOV
L’italiano lavora tantissime ore: 1.774 in un anno, in media Ocse (1.775), ma ben 200 ore sopra la media dell’Eurozona (1.573) e addirittura 363 aggiuntive rispetto ad un tedesco. Con ritmi analoghi all’operoso giapponese (1.728). Eppure la sua produttività, che l’organizzazione parigina calcola come Pil per ora lavorata, stenta. Nel 2011 erano 45,6 dollari contro quasi il doppio della prima della classe, la Norvegia (81,5), che però totalizza il 20% di ore in meno, al livello della “virtuosa” Germania. Ore lavorate e produttività, a quanto pare, non si muovono nella stessa direzione: aumentare le prime non sempre spinge la seconda. Anzi, l’opposto. Perché?TRE VIE
Lo spiega la stessa Ocse nel Rapporto sull’Italia di qualche giorno fa. Se il Pil italiano è in picchiata dal 1995 è per la scarsa crescita della produttività, “il cui tasso è tra i più deboli”. La crisi c’è per tutti. Eppure non solo la Germania, ma tutti i Pigs (Portogallo, Irlanda, Grecia, Spagna) nel biennio 2010-11 hanno fanno meglio di noi. E questo ci penalizza in termini di competitività. Per rafforzarla, suggerisce l’Ocse, ci sono tre strade: moderazione salariale, produttività più forte, meno tasse sul lavoro. In particolare, comprimere il cuneo fiscale e chiudere contratti di secondo livello contribuirebbero, per l’Ocse, a mettere più soldi in tasca ai lavoratori, legando la busta paga alle performance. Accrescere le ore, però, non sembra una soluzione. Se non si investe in tecnologia, ricerca e sviluppo, aggiungere 60 o 120 minuti in più al giorno rischia di non sortire effetti.GLI AUTONOMI
Se le ore lavorate sono così elevate in Italia, lo dobbiamo anche al contributo degli autonomi, il 22% del totale dei lavoratori, che certo dedicano alla professione più tempo dei dipendenti. Percentuale altissima e piuttosto rara in Europa (14% in media), dove siamo superati solo dalla Grecia (30%). Ma allora perché il Pil non cresce?
Perché “piccolo” non è affatto “bello”, come cantavano i cretini che venti o dieci anni fa andavano dietro ad Aldo Bononìmi e altri guru della sociologia di regime. Un’impresa “piccola” in genere non fa innovazione tecnologica (con l’eccezione limitata delle aziendine informatiche specializzate), ma sopravvive grazie a salari bassi, un po’ di evasione o elusione fiscale, bordeggiando l’economia sommersa. Venti anni così ti lasciano indietro di venti anni rispetto ai “competitor” di prima fascia; e ti ritrovi a farti mordere il sedere dagli “emergenti” che, a quel basso livello livello di tecnologia, ci sono ormai arrivati.
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