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Il caporalato fa un’altra vittima tra i migranti

Nessuno li vuole come vicini di casa, specie se numerosi. Tutti vogliono il loro lavoro, pagato una miseria, e i frutti del loro lavoro, a prezzo basso per la stessa ragione.

Un sudanese di 47 anni è morto nelle campagne tra Nardò e Avetrana, nel leccese, dopo una giornata infernale trascorsa a raccogliere pomodori sotto il sole, mentre – come in tutta Italia – la temperatura sfiora o supera i 40 gradi all’ombra. Di lui si sa solo il nome, Mohamed.

Non basta essere nati nel deserto per resistere in queste condizioni, specie se non puoi rispettare nessuna delle regole che ti hanno insegnato per sopravvivere e invece sei costretto a lavorare, a muoverti in modo veloce, sennò il caporale si infuria perché non rispetti “l’obiettivo di produzione” che ha contrattato con il proprietario del terreno. Specie se hai bisogno di lavorare il più possibile per mettere insieme una cifra minima, sommando sei euro ogni ora.

Carabinieri e 118 non hanno potuto far altro che constatarne la morte, nel tardo pomeriggio di ieri.

Non era solo. Su quel campo faticavano in 15, tutti migranti, nessuno con un contratto qualsiasi, neanche di quelli previsti dal Jobs Act, uno dei 46 che compongono il ventaglio del caporalato legale in questo paese.

Aveva il permesso di soggiorno che sarebbe scaduto solo nel 2019, era dunque “regolare”, non “clandestino”. Ma per faticare nessun caporale ti chiede un pezzo di carta che attesti la tua regolarità. Basta che tu sia disposto a sgobbare duro, in qualsiasi condizione climatica.

Nelle campagne di Nardò è prassi comune, nonostante ci siano state, negli anni scorsi, notevoli e lodevoli iniziative delle Brigate di solidarietà attiva, per portare allo scoperto il fenomeno, denunciare il caporalato e alleviare le condizioni di vita di questi “liberi schiavi” contemporanei.

All’inizio i suoi compagni di lavoro l’hanno assistito come potevano, perché sembrava si fosse solo sentito male e potesse recuperare. Poi la crisi si è aggravata, vista la completa mancanza di mezzi di soccorso. Ma sembra che avesse avuto una prima crisi già nella mattinata, tenuta nascosta al caporale per non perdere la magra paga giornaliera.

Il pubblico ministero Paola Guglielmi ha iscritto tre persone nel registro degli indagati per omicidio colposo. Si tratta della responsabile dell’azienda agricola in cui lavorava; del titolare di fatto, ossia il marito, Giuseppe Mariano, già altre volte messo sotto inchiesta per lo sfruttamento dei migranti sui suoi campi; e il caporale, sudanese come la vittima, che ricopriva il ruolo di intermediario tra gli stagionali e gli imprenditori, oppure con i caporali veri e propri della zona.

Gli inquirenti sono sicuri. Il proprietario sapeva tutto, visto che ogni giorno era sul campo per controllare che il lavoro venisse fatto nei tempi e nelle quantità previste. Scottato dalle inchieste precedenti, e per allontanare i sospetti, aveva denunciato la presenza di 28 lavoratori stagionali; poi, a quanto pare, si era “allargato” oltre quel numero.

Le prime testimonianze raccolte sono chiarissime. Si lavorava dall’alba al tramonto senza interruzione, senza contratto né assistenza di alcun tipo. 

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