Nella sua ultima intervista, il Presidente del CNR Nicolais fa una lucida analisi della sua presidenza.
Dalle sue parole si evince con chiarezza la sua intenzione di ‘concedere’ l’ente all’impresa. Ma l’impresa non ha capito.
Senza bisogno delle sue parole, basta una sommaria analisi del suo operato per giungere a questa conclusione.
L’impresa italiana, quando la parola d’ordine era il guadagno facile senza impegni industriali, ha preferito speculare nel settore finanziario, perdendo per strada (dalla crisi dei sub prime del 2007 all’attuale proveniente dal mercato cinese) enormi risorse economiche. In questo lunghissimo lasso di tempo gi investimenti in sviluppo e ricerca – tranne poche eccezioni – vicini allo zero. In questa situazione il progetto di privatizzazione sistematica della ricerca era già perdente. Eppure i vertici politici, degli enti e delle università vi si sono gettati comunque a capofitto con la scusa di aiutare così una ‘ripresa’ di cui non si vede traccia.
La fiscalità generale destinata alla ricerca finisce sempre più spesso in “regalie” alle imprese, con cui si possono comprare brevetti anche all’estero, oppure si mistificano ricerca e sviluppo per la promozione di marchi aziendali. Le cronache ci raccontano, non a caso, che molti esponenti della ricerca confindustriale è indagata per frode fiscale.
Questo è il CNR che lasciano in eredità, sempre più coinvolto nella ricerca nel settore della “difesa” militare, in ricerche applicate che producono spin off (va ricordato che il 75% di queste iniziative fallisce ed il resto vivacchia, tranne poche eccezioni) e precariato.
Eppure, anche orientamenti economici moderati in stile keynesiano (si vedano i dati prodotti dalla Mazzucato ) evidenziano come senza investimenti “pesanti” della fiscalità generale non ci potrà essere alcuna ricaduta dalla ricerca.
Inutile ricordare che i privati investono solo se vedono una prospettiva di profitto a breve. L’imprenditoria italiana, nota per la sua debolezza a causa del proprio familismo e parassitismo assistenzialista verso lo Stato, investe solo se sono garantiti dal pubblico investimenti a fondo perduto e defiscalizzazione.
L’intervista del Presidente uscente lancia anche un chiaro monito per l’immediato futuro: sono 2000 i ricercatori (e almeno altre 1500 alte professionalità) che non potranno essere mantenuti in pianta organica a causa del blocco delle assunzioni. Non a caso nella sua uscita pubblica lega inscindibilmente due temi centrali: bilancio e personale.
Un ente che non riconosce (se non parzialmente) l’anzianità di servizio, lascia licenziare i precari, non lotta per avere un aumento del fondo straordinario, sperando di ricevere fondi dalle imprese (che come detto puntano invece a defiscalizzare acquisti e creare marchi a fini speculativi ), per uscire dall’impasse può intraprendere una sola strada: cambiare radicalmente rotta, anche nella modalità in cui l’amministrazione si confronta con il sindacato.
In queste settimane USB PI ha evidenziato le priorità da mettere al centro del conflitto per mantenere in servizio il personale precario, impedendo il ripetersi del processo di ristrutturazione avvenuto nel triennio 2008-2011, quando quasi la metà delle professionalità ‘giovani’ sotto varie forme contrattuali venne ‘emarginato’ e ‘allontanato’ dal CNR.
Denunciamo l’ultimo accordo che porta extrasalario ad un percentuale infinitesima di personale in una logica falsamente meritocratica, in stile “brunettiano”.
Occorre rompere le co-gestioni che portano a questi tipi di accordo, per cui carriera e salario (ed assunzione a tempo indeterminato) sono ostaggio di modalità poco trasparenti, fuori e contro una prassi che dovrebbe sovrintendere alla pianificazione del lavoro, mettendo al centro una analisi di come si organizza e si lavora in un ente di ricerca.
Infine, occorre cambiare rotta anche in sede ARAN, separando il comparto ricerca dalla scuola, come voluto dalla FLC CGIL, che così facendo indebolisce professionalità, funzioni e personale. Per noi il comparto ricerca va difeso con tutti gli strumenti a disposizione di un sindacalismo coerente e non concertativo, chiamando il personale ad agire e mobilitarsi.
Difendere il comparto Ricerca significa difende e qualificarne la funzione, intorno ad un progetto non mercantilista ma al servizio delle maggioranze, per il quale c’è urgente necessità di rimpinguare bilanci e personale. Le risorse ci sono, e in abbondanza, come dimostrano gli investimenti miliardari del governo Renzi nelle presenti e future aggressioni militari all’estero, ipocritamente definite “missioni di pace”. Su questi obiettivi USB, insieme ai lavoratori del settore Ricerca, giocheranno la loro battaglia di dignità e diritti.
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