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L’italia ai tempi della schiavitù: tre storie di sfruttamento e morte che non hanno colore

Il sistema della grande distribuzione commerciale(Coop, Esselunga, Conad, Pam, Carrefour et et) e quello dei grandi marchi(Cirio, Mutti et et) nel nostro paese si regge su di una grande rete formata da 80 distretti agricoli in cui lavora mezzo milione di schiavi  che percepiscono mediamente  2,5 euro per ogni ora di lavoro, gestiti da un’altrettanto estesa e capillare rete di caporali ed imprenditori agricoli senza scrupoli. Ciò consente ai grandi marchi di tenere i prezzi agli scaffali molto bassi su frutta, ortaggi e prodotti lavorati e paradosslamente di strozzare le stesse piccole imprese agricole che sfruttano i braccianti, comprando da questi a  prezzi stracciati.  Questa enorme filiera consente ai grandi gruppi di massimizzare i profitti attraverso lo sfruttamento intensivo dei lavoratori ai quali non è riconosciuta alcuna tutela ed alcun diritto.  I “nuovi  schiavi” sono in prevalenza africani; ma tra loro ci sono anche indiani, srilankesi e tanti italiani, soprattutto del sud, tra cui moltissime donne.

Intorno alle 8 del mattino del 13 luglio del 2015, Paola Clemente, una bracciante italiana di 49 anni di San Giorgio Jonico, in provincia di Taranto, si era accasciata nelle campagne di Andria, dove lavorava nell’acinellatura dell’uva. Paolo, ogni giorno  faceva circa cinque ore di viaggio fra andata e ritorno per raggiungere un tendone dove la temperatura arriva fino a 40 gradi e dove insieme ad altre donne selezionava gli acini scartando i chicchi più piccoli. Il marito disse che la moglie «andava via di casa alle 2 di notte. Prendeva l’autobus alle 3. Ai campi, ad Andria, da San Giorgio Jonico, arrivava intorno alle 5.30. Noi a casa la rivedevamo non prima delle 3 del pomeriggio, in alcuni casi anche alle 6. Guadagnava 27 euro al giorno» .  Ancora il marito spiegava così il lavoro di Paola: «Tolgono gli acini più piccoli per fare bello il grappolo. È necessario quindi che le braccianti salgano su una cassetta e tolgano l’acinino. Significa stare con le braccia tese e con la testa alzata per tutta la giornata. È un lavoro molto faticoso, ma non potevamo fare altrimenti».
Sulla morte di Paola, la Procura di Trani aprì un’inchiesta: le indagini esclusero  l’iniziale ipotesi di omicidio colposo con la motivazione che Paola era morta per un infarto(!). Tuttavia la stessa procura accertò lo sfruttamento lavorativo della quarantanovenne e di altri braccianti nella provincia di Brindisi-Andria-Trani. Fu chiesto, pertanto, il rinvio a giudizio per sei persone accusate  di aver gestito la rete del caporalato nella zona, reclutando braccianti agricoli attraverso un’agenzia interinale di Noicattaro, in provincia di Bari. Le braccianti sfruttate nei campi percepivano ogni giorno 30 euro per 12 ore di lavoro: l’appuntamento era alle 3 e 30 del mattino per essere portate nei campi a bordo dei pullman, il rientro era alle 15 e 30. Il compenso, in base ai contratti di lavoro, sarebbe dovuto essere di circa 86 euro, circa tre volte di più rispetto a quello effettivamente percepito. Guardia di Finanza e Polizia accertarono che nelle buste paga non venivano calcolate tutte le giornate di lavoro effettive e neppure gli straordinari. Con questo sistema  l’agenzia interinale che aveva reclutato le braccianti aveva evaso 48mila euro di contributi in soli tre mesi.

Subito dopo, Il 20 luglio 2015, quando la temperatura in Salento sfiorava i 42 gradi. Abdullah Muhamed, un uomo sudanese di 47 anni che raccoglieva pomodorini in un campo tra Nardò e Avetrana, dopo qualche ora di lavoro senza pause e dopo essersi  lamentato un paio di volte per il caldo, si accasciò a terra esanime per un malore. Altri due braccianti stranieri avevano provarno a soccorrerlo, ma per Muhammed non ci fu nulla da fare. Muhamed non era stato sottoposto a nessuna visita medica prima di iniziare la raccolta e non aveva un contratto di lavoro ma soltanto un accordo verbale con un caporale che faceva da intermediario per un imprenditore salentino. La paga era a cottimo(sei-sette euro per ogni cassone da riempire di pomodorini). Una cifra alla quale, però, andavano sottratti la quota per il caporale, il trasporto fino ai campi e il panino per il pranzo. In tasca, sostanzialmente, potevano rimanergli circa due euro per ogni ora di lavoro.  La moglie di Muhamed, in un’intervista a Repubblica,  raccontò cosa vide quando andò a riprendere le cose del marito, nel ghetto dell’ex falegnameria dove dormiva insieme agli altri braccianti: «Li fanno vivere peggio delle bestie. Mio marito dormiva su un materasso poggiato su un balcone, in mezzo alla sporcizia». I pomodorini raccolti da Muhamed, secondo quanto accertato dalla Procura di Lecce, venivano consegnati ad alcune delle maggiori aziende italiane di trasformazione del pomodoro, titolari di marchi come Mutti, Conserve Italia (Cirio) e La Rosina. Per la morte del 47enne la pm ha chiesto il rinvio a giudizio con le accuse di omicidio colposo e caporalato per Mohamed Shaa Eldei (il caporale che fungeva da intermediario, anche lui sudanese) e Giuseppe Mariano, detto Pippi, imprenditore salentino titolare dell’azienda, già rinviato a giudizio insieme ad altri (ma poi assolto) nel 2011 nel processo Sabr sullo sfruttamento dei braccianti nei campi: Fu la prima sentenza che riconobbe in Italia la “riduzione in schiavitù” dei lavoratori.  Nell’avviso di conclusione delle indagini preliminari della Procura di Lecce c’è scritto che Muhamed e gli altri braccianti “erano sottoposti a ritmi sfiancanti di 10-12 ore al giorno, spesso in nero, in condizioni atmosferiche e climatiche usuranti, senza il riposo settimanale, senza il rispetto della normativa sulle pause, per poi immettere nel mercato corrente il prodotto con un maggiore guadagno per lo stesso titolare dell’azienda ”. I compensi, invece, “erano di gran lunga inferiori rispetto a quelli previsti dai contratti.” *.

E come Paola e Muhamed anche la bracciante 39enne Giuseppina Spagnoletti, il 31 agosto del 2017, è morta nelle campagne di Ginosa (Taranto) accasciandosi senza vita mentre era al lavoro nei campi. Giuseppina era giunta di primo mattino nelle campagne di Ginosa e si era messa all’opera. Intorno alle 11 il malore che l’ha fatta accasciare al suolo. Pare che Giuseppina soffrisse di una lieve forma di cardiopatia, ma è certo che il caldo intenso, i ritmi durissimi e gli orari interminabili che le le erano stati imposti nel lavoro dei campi, hanno nel tempo accentuata la sua patologia ed aggravate le sue condizioni causandone, infine, il decesso. E’ stato accertato, infatti, che Giuseppina, pur sofferente, era in realtà duramente sfruttata, tant’è che l’inchiesta della procura di Taranto ha portato a sei arresti, fra cui il titolare dell’azienda e il titolare dell’agenzia interinale che l’aveva assunta.

Sono solo tre storie prese a caso  tra quelle più recenti; tre storie di schiavitù e sfruttamento, che registriamo nell’Italia del XXI secolo come fosse l’Alabama degli anni cinquanta. E’ un nuovo sistema di schiavitù che dovrebbe provocare sdegno e vergogna ma che, invece, lungi dall’essere smantellato, è reso possibile dall’intreccio perverso di legislazioni  diverse: quelle sugli stranieri che ne favoriscono lo sfruttamento senza limiti a cusa della ricattabilità dovuta al possesso o meno del permesso di soggiorno e quelle che hanno smantellato il preesistente quadro di tutele e diritti dei  lavoratori, italiani e non. A tutto ciò si aggiunge la scarsità dei controlli dovuta alla situazione di cronica carenza di organico in cui vengono colpevolemente tenuti dallo Stato gli ispettorati del lavoro e gli alri organi di accertamento. Il 2017, in seguito alla nuova organizzazione della materia disegnata dal Jobs Act del 2015, ha visto la nascita dell’Ispettorato nazionale del Lavoro e la situazione è addirittura peggiorata. Se nel 2016 sono state condotte verifiche su 192mila imprese, nei dodici mesi successivi si sono fermate a 160mila, con un calo del 16%.

Ebbene, come abbiamo visto, le vittime di questo aberrante sistema schiavistico di sfruttamento del lavoro agricolo non hanno nè una nazionalità nè un colore preciso. Le vittime sono sempre e soltanto i nuovi braccianti agricoli costretti a lavorare senza sosta, dall’alba al tramonto, senza più alcun diritto ed a ritmi inauditi. Se poi sono di origine “straniera” prima di crepare di lavoro sono pure costrette a vivere in baraccopoli spesso prive di acqua potabile ed in cui vigono condizioni igienico-sanitarie spaventose.

*Fonte: https://www.valigiablu.it/caporalato-lavoro-sfruttamento/ Licenza cc-by-nc-nd valigiablu.it

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