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Decreto Dignità, vado al minimo. Il Jobs Act resta, la precarietà pure

Iniziamo a licenziare il Jobs Act”. Con queste parole Luigi Di Maio ha presentato il Decreto Dignità, approvato lunedì dal Consiglio dei Ministri. Da quanto riportato dagli organi di stampa, poiché il decreto non è ancora disponibile nella sua veste formale, quella del ministro sembra una dichiarazione molto al di sopra della realtà, sia per le problematiche affrontate che  per le soluzioni messe in campo, veramente parziali e non risolutive, né per la precarietà né per gli intendimenti annunciati nel corso della campagna elettorale.

Le modifiche, parzialissime, al Jobs Act si riferiscono ai contratti a tempo determinato, che continuano a essere stipulati senza causale fino a 12 mesi, rinnovabili 24 contro i 36 attuali con obbligo di causale, per un massimo di 4 rinnovi contro i 5 previsti attualmente, e con un aumento dello 0,5 di oneri contributivi ad ogni rinnovo.  I padroni alzano alte grida e lamenti, ma non dovrebbero preoccuparsi tanto visto che Di Maio li ha prontamente rassicurati annunciando la necessità di “un abbassamento del costo del lavoro nella legge di Bilancio, per consentire alle persone più tutele possibili” (sic!).

Come se non bastassero i 16.880 miliardi da loro ricevuti, grazie al Jobs Act e alle risorse stanziate da Renzi negli anni passati, sotto forma di decontribuzioni e detassazioni per i nuovi assunti.

Anche ai contratti in somministrazione, gli interinali, verrebbero applicate le stesse misure dei contratti a tempo determinato, con il limite del 20% rispetto al numero dei  loro dipendenti a tempo indeterminato.

E veniamo alla misura che nei mesi scorsi veniva preannunciata come il ripristino dell’art.18. In realtà il decreto prevede solamente la modifica dell’indennità in caso di licenziamento illegittimo che passa da 24 mesi ad un massimo di 36, bypassando con estrema nonchalance la reintegra in caso di licenziamento senza giusta causa, perpetuando in questo modo la situazione di estremo ricatto a cui sono soggetti lavoratrici e lavoratori nei luoghi di lavoro.

La questione della precarietà, più volte evocata dai 5 Stelle, rimane intatta nella sua drammaticità, sia per quanto riguarda le oltre 20 tipologie contrattuali esistenti (neppure lo staff leasing viene abolito così come annunciato fino a tre giorni fa), che per la reintroduzione dei voucher a partire dall’agricoltura, settore già tanto martoriato dal lavoro nero e illegale.

Non c’è traccia del salario minimo per legge, anche questo un cavallo di battaglia nel periodo preelettorale.  Eppure le statistiche, che annunciano un aumento di pochi decimali dell’occupazione, non riescono a nascondere la realtà: su 100 contratti nuovi solo 4 sono a tempo indeterminato, in una situazione in cui in Italia si lavora 1725 ore l’anno, più del 20% della Germania, ma con una produttività di 20 punti percentuali in meno dei tedeschi! Finché i padroni potranno gestire a loro piacimento la flessibilità e la possibilità di mandare a casa con poca spesa i lavoratori, non avranno nessun interesse ad investire in tecnologia e in programmi a lungo termine!

Anche quanto uscito dall’incontro di ieri con i rappresentanti dei riders e con CGIL CISL UIL, che a tal proposito possono vantare iscritti zero, la dice lunga sul percorso e le scelte che questo governo sta privilegiando per quanto riguarda il mondo del lavoro: dalla riesumazione della concertazione, che in 20 anni ha fatto tragicamente arretrare le condizioni di lavoro, all’asserzione, sempre del ministro del Lavoro, che dobbiamo abituarci al fatto che i lavoratori abbiano tutele minime!

Non lo sa il ministro che è quello che accade ormai da molti anni nel nostro paese, dove si è arrivati addirittura al lavoro gratuito e a forme di lavoro paragonabili allo schiavismo?

È ora semmai di cambiare radicalmente rotta e pensare invece al massimo di tutele!

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