Alla fine la vera rogna è venuta fuori. La formazione del governo grillin-leghista non si è impantanata soltanto sulle ambizioni individuali dei due “leader”, né solo sulle difficoltà di conciliare due programmi parecchio diversi. Ma sulla condizione strutturale, strategica, che consente oppure no di realizzare un qualsiasi programma “autonomo”: restiamo o no nell’Unione Europea? Restiamo o no nella moneta unica? Restiamo o no fedeli alla Nato e agli Stati Uniti?
Politica interna e politica estera sono ormai indistinguibili e inseparabili, da quando questo paese ha firmato – spesso senza neanche leggerli, pare – trattati impegnativi sia sul fronte economico che su quello militare. Non puoi promettere, insomma, agli elettori che abolirai la legge Fornero o introdurrai il reddito di cittadinanza senza mettere in conto un robusto scontro con la Ue. Non puoi sollevare le sorti delle imprese esportatrici del Nordest senza mettere in discussione (eufemismo) le sanzioni occidentali alla Russia (che quasi nessuno rispetta davvero, peraltro, a cominciare dalla Germania).
La pubblicazione, da parte dell’Huffington Post, di una bozza del “contratto” in via di elaborazione tra Lega e Cinque Stelle ha messo sul tavolo, squadernati, tutti i temi che la pura propaganda elettorale aveva confinato sullo sfondo. E si capisce anche il perché due forze diverse, ma storicamente “euroscettiche”, avevano fatto di tutto per “rassicurare i mercati e gli alleati internazionali”, mettendo da parte proprio quei temi.
Dall’analisi di quella bozza – senza neppure prendere in considerazione le “smentite” piovute subito da Di Maio e Salvini – si comprende facilmente il tunnel in cui i due si sono infilati, e che Mattarella, lunedì, non deve aver mancato di illuminare, facendosi ancora una volta interprete dei vincoli sovranazionali che costringerebbero a valutare come carta straccia quasi tutti i passaggi del “contratto”.
Per esempio: puoi anche scrivere che vuoi aprire un “dialogo nelle sedi comunitarie al fine di applicare il provvedimento A8-0292/2017 approvato dal Parlamento europeo lo scorso 6 ottobre 2017, che garantirebbe il 20% della dotazione complessiva dei Fondo Sociale Europeo per istituire in reddito di cittadinanza anche in Italia” – ossia far finanziare in parte dalla Ue quella tua promessa elettorale – ma non puoi far finta di non sapere che l’unica risposta possibile sarà un secco “NO”.
Idem per quanto riguarda la moneta unica. Se ti poni davvero l’obiettivo di introdurre “specifiche procedure tecniche di natura economica e giuridica” che consentano a singoli Stati di uscire dall’euro, o di “restarne fuori attraverso una clausola di opt-out permanente“, per avviare un “percorso condiviso di uscita concordata” in caso di “chiara volontà popolare” in tal senso (un referendum, insomma)… non puoi non sapere che gli apparati europei piuttosto ti fucileranno con l’aiuto della speculazione finanziaria internazionale (lo spread, stamattina, ha ricominciato a correre verso l’alto).
Peggio ancora per la richiesta, da avanzare alla Bce, di cancellare 250 miliardi di euro in titoli di Stato italiani acquisiti con il quantitative easing. Misura che sarebbe giusta e sensata, se non ci fossero dall’altra parte euroburocrati che lavorano per il fine opposto (condizionare le politiche dei singoli paesi tramite il ricatto del debito).
Potremmo andare avanti a lungo, ma non serve neppure. Come avevamo scritto qualche giorno fa, Salvini e Di Maio si muovono come due Tsipras di destra, ma dentro l’identica gabbia: vorrebbero restare dentro la Ue e l’euro, ma senza pagarne per intero il prezzo. Lo dimostra la proposta di privatizzare pressoché integralmente il patrimonio immobiliare in mano allo Stato, per ridurre così il debito di circa 200 miliardi (teorici, perché a quel punto i prezzi crollerebbero in un attimo, vanificando buona parte dell’idea e trasformandola in un clamoroso regalo alla speculazione). Vorrebbero insomma una “riforma radicale dei trattati”; proprio quello che viene invece escluso dai vertici di Bruxelles, forti del fatto che ogni revisione deve essere approvata all’unanimità (e dunque ogni paese dispone del diritto di veto).
Certo, Salvini in primo luogo, ma in parte anche Di Maio, hanno in testa un riequilibrio delle relazioni economiche infraeuropee tale da favorire soprattutto le imprese medio-piccole. Lo testimonia il passaggio in cui si prevede addirittura la reintroduzione dei famigerati voucher per retribuire i “lavoretti”, ovviamente “vigilando per evitare gli abusi” che hanno obbligato perfino i governi del Pd a ridimensionarne la portata.
Certo, la politica sull’immigrazione è fortemente razzista (ma con qualche estremismo in meno rispetto alle dichiarazioni verbali; si vede che Confindustria si è fatta sentire…). Certo, la politica giudiziaria è tutto un “manette facili”, aumento delle pene, cancellazione delle misure alternative; accompagnata da chiacchiere sulla lotta alla corruzione e ai conflitti di interesse.
Certo, come si era capito subito, la legge Fornero non sarebbe affatto cancellata, ma soltanto “superata” con qualche esenzione in più per alcune categorie considerate “usuranti”. E sicuramente la flat tax – ultradestra liberalr spudorata – viene nominata ma subito dopo negata (““La parola chiave è flat tax, caratterizzata dall’introduzione di aliquote fisse, con un sistema di deduzioni per garantire la progressività dell’imposta in armonia con i principi costituzionali”).
Certo, insomma, che si tratta di un programma con chiarissima impostazione di destra. Ma il problema centrale, strutturale, strategico, è lo stesso che si porrebbe immediatamente a qualsiasi forza di sinistra radicale che volesse promettere e poi realizzare politiche sociali ed economiche orientate alla riconquista di diritti sul lavoro, livelli salariali e welfare.
Se vuoi fare qualcosa di diverso – non importa in che direzione – da quanto prescritto dalla Commissione europea e dai trattati devi essere pronto a romperli, con tutte le conseguenze del caso, perché la “riforma” non è proprio prevista.
Salvini e Di Maio sono arrivati al punto in cui era arrivato Alexis Tsipras, che peraltro godeva di un consenso di massa assai più vivace, partecipato, conflittuale. Con la non piccola differenza che ora sono passati tre anni, le strategie della Ue sono diventate più coercitive e, non da ultimo, l’Italia ha peso economico molte volte superiore a quello della Grecia; quindi un suo “comportamento erratico” avrebbe conseguenze sistemiche molto più devastanti.
In più, al Quirinale c’è un presidente che ha già fatto vedere e capire di esser lì per far rispettare i vincoli sovranazionali anche se in contrasto con il voto popolare, al punto da ricordare che è lui a nominare premier e ministri, a bocciare le leggi prive di copertura, ecc.
Non ci meraviglierebbe affatto che i due possano scendere dal Quirinale senza aver ricevuto nessun via libera. A meno di non cancellare dal “contratto” tutti i passaggi su cui il controllo europeo è ormai dato assodato.
O come Tsipras, o alle elezioni, insomma. Non è più tempo per giri di consultazione e chiacchiere ottimistiche.
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