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Whirlpool: la necessità dell’intervento statale contro lo strapotere delle multinazionali

A poche ore dalla conclusione del primo tavolo al Ministro dello Sviluppo Economico, a Roma, che ha discusso della vicenda Whirlpool di Napoli occorre fare qualche considerazione utile sia per gli sviluppi di questa vertenza ma anche con uno sguardo al lungo (e drammatico) “elenco di tavoli di crisi aziendali” che languono sulle scrivanie del Ministero.

Diciamo subito che il caso Whirlpool stupisce solo chi non ha in mente – o finge di non conoscere – il modus operandi delle grandi aziende multinazionali, le quali agiscono sulla base della propria mission: il massimo tasso di profittabilità e la continua svalorizzazione della forza lavoro. Questa realtà non è nuova ed è tutta dentro la moderna configurazione del capitalismo contemporaneo.

La storia industriale del nostro paese ha già conosciuto (e pagato) vicende come quelle che si stanno consumando in questi giorni a Napoli. In particolare il Sud d’Italia ha vissuto intere stagioni sociali e sindacali che hanno fatto i conti materiali con tale “humus ambientale”, in cui le multinazionali hanno goduto del massimo di discrezionalità possibile beneficiando, da un lato, ogni tipo di incentivi e sgravi e, dall’altro, della disponibilità collaborazionista delle organizzazioni sindacali complici nel concedere deroghe ai già ristretti vincoli orari e salariali cui sono costretti le lavoratrici e i lavoratori.

Quando poi – negli asettici uffici delle governance aziendali – qualche grafico indicava o un rallentamento degli indici o si intravedevano paesi dove era possibile estorcere il lavoro ad un costo minore, i vari manager di queste vere e proprie organizzazioni criminali sfornavano esuberi, tagli lineari, ristrutturazioni e l’intero armamentario delle strumentazione normativa antioperaia mettendo, al di là del formalismo giuridico, sotto i piedi qualsiasi presunta etica, gli accordi sottoscritti e i protocolli firmati.

Stridono, dunque, e provocano viva irritazione le dichiarazioni di queste ore in cui esponenti di partiti, vertici istituzionali, uomini di Confindustria, Confcommercio e della cosiddetta società civile, mostrano il massimo dell’ipocrisia possibile nel dichiarare “stupore per le improvvise decisioni aziendali e preoccupazione per i lavoratori”.

Mai come in questo periodo – in un’area metropolitana come quella partenopea – dove gli storici e strutturali fattori di sofferenza sociale conoscono una ennesima impennata, è veramente stomachevole assistere alle lacrime di coccodrillo ed alle rituali processioni alle porte della Whirlpool di quanti, a vario titolo, sono parte costitutiva e scatenante degli attuali problemi dei lavoratori di questa fabbrica e, più in generale, dell’intero mondo del lavoro.

Da questo punto di vista le dichiarazioni dei giorni scorsi (da parte di tutti gli attori istituzionali di questa vicenda) sono stati il massimo della fumisteria possibile e sono state tutte incardinate ad una squallida polemica – in basso politichese e ancora fortemente condizionate  dal clima post/elettorale – dove ognuno era interessato a marcare la sua posizione esprimendo o “la critica al governo che non ha vigilato” o un generico “richiamo alle responsabilità della multinazionale”.

Insomma, ancora una volta, non si racconta e rappresenta la verità dei fatti e si è, invece, squadernato l’abituale copione che fa da corollario a queste “vicende sindacali simboliche” dove l’esito sembra quasi già scritto e dove il costo umano e sociale sarà scaricato sui lavoratori, sull’economia dell’indotto e sul già manomesso territorio.

Venendo alle risultante dell’incontro al Ministero di Luigi Di Maio – svolto nel pomeriggio di martedì 4 giugno – l’azienda ha chiesto tempo per un nuovo incontro. Whirlpool ha dichiarato che è in atto a Napoli, a Carinaro e negli altri siti distribuiti in Italia, un avvio di un processo di ristrutturazione, senza specificare forme e modalità di questo piano. Inoltre, sempre a detta dei rappresentanti dell’azienda, nello stabilimento napoletano si registrerebbero delle alte perdite di esercizio a cui intenderebbero “rimediare”.

Da parte del Ministro del Lavoro, Di Maio, c’è stata una evidente incazzatura verso il comportamento dell’azienda che ha, palesemente, non onorato gli impegni assunti in precedenza ed è stata palesata la possibilità di intervenire sul sistema degli incentivi di cui ha goduto, e gode tutt’ora, la multinazionale.

Ma, oltre all’incazzatura di Di Maio, non ci sembra che il Ministro o il Governo abbiano chiara una possibile linea di intervento sui numerossimi casi di “crisi industriali e produttive” di cui pullula il paese.

Nel palazzo del MISE si oscilla, anche a seconda dei vari interlocutori ministeriali, dall’enunciare reprimende generiche verso gli “industriali inadempienti” a promesse di “risolvere i bacini di crisi”, ma sul versante dei risultati concreti e verificabili il bilancio è deludente, assolutamente non all’altezza della gravità della crisi generale del sistema industriale del paese. Si ha la sensazione che i 5 Stelle orientino la loro azione più sull'”effetto annuncio” e molto meno sui risultati concreti, come per il “modello Reddito di Cittadinanza”; grande battage pubblicitario, ma una misura reale molto al di sotto delle aspettative sollevate.

Per quanto riguarda Cgil, Cisl e Uil cosa dire? In questo caso è come “sparare sulla Croce Rossa”. I vertici di queste organizzazioni sono quelli che, periodicamente, hanno firmato (alla Whirlpool e non solo) tutti gli accordi che sono all’origine dell’attuale situazione in cui versano i lavoratori. Cgil, Cisl e Uil – al momento – non hanno avanzato uno straccio di proposta organica in grado di tutelare almeno gli attuali occupati alla Whirlpool, ma si evidenzia – anche in questo avvio di “trattativa” – una linea di condotta di mera richiesta al Governo affinchè “imponga all’azienda il rispetto degli accordi precedenti” o un paradossale “appello all’azienda ed ai suoi compiti produttivi”.

Cgil, Cisl e Uil hanno diffuso in tutti questi anni la logica dei “sacrifici necessari”, spalancando il varco alla libera iniziativa del padronato e delle multinazionali. L’accordo dell’Ottobre 2018 è frutto di tale approccio. L’aver propugnato la filosofia della “riduzione del danno” è stato l’ulteriore elemento che ha contribuito all’attuale frammentazione della forza – politica e materiale – dei lavoratori, allargando oltremodo le maglie alla deregolamentazione autoritaria della forza lavoro.

Occorre essere onesti e chiari quando il contendere sono il lavoro e le condizioni di vita degli operai. Per cui è evidente – considerando anche la situazione politica generale – che le prospettive che si delineano per i lavoratori della Whirlpool non sono affatto rosee.

E’ questo, quindi, il tempo della verità e non delle mistificazioni.

Tale consapevolezza occorre averla in mente altrimenti, anche inconsapevolmente, si può contribuire al disegno padronale di ridimensionare e/o chiudere il sito di Napoli.

Piaccia o meno, per salvare il lavoro alla Whirlpool ci vuole la ripresa dell‘Intervento dello Stato nell’Economia, che significa: di fronte all’insolvenza ed alla fuga della multinazionale, lo Stato (anche attraverso organismi come Invitalia, l’Agenzia Nazionale per lo Sviluppo d’Impresa) deve requisire lo stabilimento ed avviare una gestione seria della produzione; e solo, eventualmente, avviare la ricerca di nuovi imprenditori sul mercato.

Una prospettiva del genere che non è ancora – si badi bene – la classica Nazionalizzazione fa urlare allo scandalo gli apologeti della gabbia dell’Unione Europea, la quale non gradirebbe una misura del genere definendola “aiuti di Stato oltre i vincoli europei”.

Questa costruzione normativa antioperaia, che calpesta ogni forma di elementare “sovranità nazionale e di sovranità popolare”, va infranta con la consapevolezza dell’importanza della posta in gioco, ben oltre un approccio meramente sindacale o settoriale, che sarebbe inadeguato alla complessità delle questioni.

La sfida – tra chi produce chiacchiere o fake news e chi intende porre un argine alla fuga delle multinazionali – si misura su tale terreno ed è questa la soglia politica ed economica attorno cui sfidare anche “l’ammuina dei 5 Stelle” e le urlate dichiarazioni di Di Maio.

Certo un obiettivo di tale portata necessità di un sovrappiù di consapevolezza e di lotta e, soprattutto, un cambio di paradigma interpretativo su come le vertenze operaie si posizionano, sempre costrette al piano inclinato delle trattative soggette alla spada di Damocle del padronato e al ricatto delle multinazionali. Altre soluzioni appaiono, francamente, impossibili.

Naturalmente – conoscendo la storica astuzia delle multinazionali o il politicantismo dei nostri governanti – non è escluso che si possa addivenire a qualche “soluzione tampone” la quale, però, anche sulla scorta del bilancio del complesso delle vertenze sindacali degli ultimi anni, si configurerebbe come una sorta di “bomba ad orologeria”, pronta ad esplodere al prossimo “mezzo punto di percentuale di profitto in meno”.

Il nostro impegno – politico e sindacale – sarà orientato ad impedire questo copione, che è rmai un insopportabile ed anacronistico remake.

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1 Commento


  • Mauritius

    multinazionali del cavolo che vedono sempre spiragli e grandi opportunità nei soldi e risorse che gli Stati concedono
    loro prendono fino a che prendono e poi scaricano tutto
    allora invece di credere che concetti anni 70 siano vetusti riguardatevi THE TAKE documentario sulla grave crisi economica argentina……….dirigenti e proprietari inetti e falliti……chi portava avanti la produzione erano i lavoratori
    fare subito leggi dove arrivati a certi stadi lo Stato non butta nel cesso miliardi di euro ma consegna le ditte ai lavoratoti quali
    ne sono proprietari in cooperativa
    chi ha fallito nel proprio compito economico e sociale non viene fucilato,…..ma si da a chi ha tutte le ragioni per fare proseguire attività

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