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Vietato pensare in proprio, nelle questure di Salvini

Una delle formule più ripetute nel vaniloquio salviniano in Senato è stata “uomini liberi”. Come tutte le formule generiche, impossibile contestarle nel merito: chi mai vorrebbe vivere da schiavo? Eppure molti vivono proprio così, e molti di quelli che cincischiano più spesso quella formula obbligano qualcun altro a vivere da schiavo. Alle proprie dipendenze e in silenzio, oppure “fuori di qui”.

Ma come si comporta Salvini verso chi – direttamente o indirettamente – lavora per lui o il ministero che sciaguratamente ha guidato per 15 mesi?

Beh, i casi per lui negativi sono molti, ma uno in particolare oggi merita un po’ di attenzione.

Alla Questura di Milano – sì, proprio quella in cui venne ammazzato Giuseppe Pinelli – una ragazza che lavorava come interprete era stata licenziata qualche mese fa. La sua colpa? Aver criticato il ministro dell’interno – il responsabile politico in cima alla catena di comando della polizia – in un libro, Lettera agli italiani come me, che narra dei problemi e delle discriminazione subite dagli stranieri, sia nella società che nei rapporti con le istituzioni; criticando tra l’altro gli ostacoli frapposti allo smaltimento delle pratiche dalle circolari dello staff salviniano. Ovvero per qualcosa di creato nella sua sfera di opinione individuale (non possiamo definirla “privata”, visto che un libro è accessibile a chiunque).

In altri termini, Elizabeth Arquinigo Pardo – peruviana di nascita, in Italia da quasi 20 anni – è stata punita perché “donna libera”, con idee proprie non corrispondenti a quelle del “datore di lavoro”.

A voler essere pignoli, il datore di lavoro formale di Elizabeth non è neanche la Questura di Milano, ma la solita “cooperativa” che aveva vinto l’appalto per fornire il servizio di interpreti per i colloqui con i richiedenti asilo, nell’ambito del progetto guidato dall’agenzia europea Easo. Un contratto di collaborazione, niente di più, alla faccia delle sventolate preoccupazioni per i “lavoratori di questo paese”.

Una brutta mattina, nel febbraio scorso, la cooperativa la chiama e le comunica che non dovrà più presentarsi al lavoro; lei va lo stesso in Questura e ne viene naturalmente cacciata senza motivazioni, tranne l’indicazione informale di una direttiva ad personam giunta  nientepopodimeno che dal Ministero dell’Interno.

Come dovrebbe fare ogni lavoratore che sia anche un “uomo libero”, Elizabeth ha fatto causa contro il licenziamento. I datori di lavoro – quello formale e quello sostanziale – hanno dovuto così fornire una motivazione, nero su bianco. Dunque impugnabile davanti a un giudice.

Altrettanto ovviamente la motivazione ufficiale addotta non poteva essere quella reale (perché avrebbe rivelato una discriminazione politica nel rapporto di lavoro, inammissibile persino per Jobs Act renziano), ma una molto più fantasiosa e presuntamente tecnica: l’aumento delle domande da parte di cittadini peruviani da quando Elizabeth era entrata in servizio.

Ma una cosa è dire in un comizio da spiaggia “guarda caso…” a proposito di situazioni inverificabili per gli ascoltatori, un’altra è dimostrare in Tribunale, carte alla mano, che quel che si sta dicendo è anche vero. Capita, agli unti del signore, di confondersi tra il dire e il dimostrare…

Così il Tribunale di Como ha velocemente verificato che questa “accusa” era «non solo indimostrata, ma neppure sostenibile a livello indiziario», disponendo perciò il reintegro.

Il ministero dell’interno, infatti, non aveva fornito alcun riscontro numerico (quantità dei ricorrenti peruviani prima, durante e dopo l’ingresso al lavoro di Elizabeth nella questura meneghina). Una pura chiacchiera, buttata lì da chi ha un distintivo che che nella sua testa dovrebbe metterlo al di sopra della legge.

In contemporanea con il licenziamento di Elizabeth, inoltre la stessa questura aveva chiesto a tutti gli interpreti precari in servizio di firmare una dichiarazione di non far parte di nessuna associazione, movimento o gruppo politico “incompatibile con il ruolo”. Altra formula vaghissima, perché risulta difficile capire quale opinione politica sia “incompatibile” con il lavoro di traduzione (fatto ovviamente salvo l’obbligo alla riservatezza per chiunque lavori in uffici pubblici).

Perché questo è diventato il ministero di polizia al tempo di Salvini: un megafono a disposizione del ministro, senza voci dissonanti né diritto ad avere opinioni differenti. Un posto di cui gli “uomini liberi” debbono aver paura…

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