Al riparo dal nubifragio che ha colpito la città, oggi è stato un pomeriggio caldissimo al Ministero dello sviluppo economico a Roma. Si è da poco concluso infatti l’incontro di uno dei più di 150 tavoli di crisi aperti a Palazzo Piacentini, quello decisamente più bollente, riguardante l’impianto siderurgico ex Ilva di Taranto, la proprietà Arcelor Mittal e più di 10.000 lavoratori.
La squadra del ministro Patuanelli ha ricevuto l’amministratore delegato Lucia Morselli per la società franco-indiana (nonché ispanica, a conferma della vocazione “multinazionale”) e le rappresentanze sindacali presenti nello stabilimento, cioè Usb e Cigl Cisl e Uil.
Fuori, tanti lavoratori saliti direttamente con i pullman dalla Puglia, organizzazioni politiche, collettivi, altri lavoratori solidali, tutti a sostenere le famiglie che da anni ormai, ma in particolar modo nelle ultime settimane, vivono l’incertezza del futuro senza un reddito stabile.
Ebbene, il tavolo dopo tre ore di “trattative” si è concluso come si prevedeva alla vigilia: l’ad Morselli ha riportato il mandato ricevuto dai propri azionisti confermando che l’Arcelor Mittal lascerà lo stabilimento di Taranto. Tre giorni fa infatti la proprietà aveva già depositato presso il Tribunale di Milano l’atto di citazione per il recesso del contratto di affitto, preliminare all’acquisto, dell’ex Ilva. Ieri aveva inoltre smentito alcune indiscrezioni che si erano rincorse nei giorni precedenti circa la possibile permanenza fino a maggio, confermando la tabella di marcia prevista per lo stop della produzione: il prossimo 12 dicembre è previsto quello dell’altoforno Afo2, il 30 l’Afo4 e infine il 15 gennaio toccherà all’impianto Afo1.
La Morselli, successivamente all’uscita di Patuanelli che ha dovuto lasciare il Mise per motivi personali, ha dichiarato agli interlocutori l’impossibilità di continuare la produzione nell’impianto a causa «del suo stato fatiscente e per la pericolosità per la vita sia degli operai, sia per i cittadini dell’area circostante».
Sarebbe stato interessante sapere cosa avrebbe detto in caso di congiuntura positiva del mercato dell’acciaio, magari se si fossero potute raggiungere le 6 milioni di tonnellate stabilite nel piano di rilancio, o se avesse potuto usufruire dello scudo penale.
Seppure immaginiamo le risposte, lasciando il campo delle ipotesi il dato di questo incontro è che ancora una volta una multinazionale segue la propria logica rigorosa (e come potrebbe essere altrimenti) e lascia il campo di gioco una volta capito che nessun profitto accettabile è raggiungibile nella partita. Con buona pace di lavoratori, ambiente, necessità umane o anche “nazionali”.
Rispetto a questo, le preghiere di Cigl, Cisl e Uil alla rappresentante della proprietà di non lasciare Taranto stonano con i valori che danno forma al mondo della produzione tout court. Fiato sprecato sostanzialmente, una richiesta che non ha possibilità concreta di essere esaudita, buona forse solo per salvare la faccia pubblica.
Sullo spegnimento degli altiforni invece, c’è la conferma che la procura di Milano farà valere l’ultimo comma dell’art. 70 del Codice di procedura civile che prevede l’intervento per la salvaguardia dei livelli occupazionali e delle necessità economico-produttivo di interesse per il paese.
Che rimane dunque? Come sottolineano i rappresentato dell’Usb, la sola via percorribile in tutta questa vicenda è la completa presa in carico dell’impianto da parte dello Stato, la sua messa a norma in termini di sicurezza per i lavoratori e di inquinamento ambientale. Solo così si potrebbero salvare i livelli occupazionali garantiti sia dall’unità produttiva che dall’indotto, e attuare politiche di risanamento e bonifica che rispettino non solo gli indicatori di redditività, ma anche quelli della salute e dell’aspettativa, oltre che della qualità, della vita.
Ma questo, ovviamente, sarebbe venire meno all’ideologia dominante dell’arco istituzionale europeo, secondo cui lo Stato non può essere un competitor nell’arena economica, ma si deve limitare a garantire, appunto, la libera concorrenza tra gli attori privati e il diritto di proprietà degli stessi.
Sarebbe, dunque, un deciso cambio di passo rispetto al ruolo definito per il paese dalle gerarchie intra-Unione europea, dove la deindustrializzazione che da trent’anni a questa parte marcia costante è un tassello decisivo, nell’ambito economico, per la sudditanza alla produzione made in Germany. La timida quanto creativa idea di far entrare dalla porta di servizio la Cassa depositi e prestiti, oltre a incontrare ostacoli burocratici e mugugni d’oltralpe, ne è un esempio.
In questo quadro, acquista maggiore importanza l’appuntamento lanciato dall’Usb per il prossimo Sciopero globale del 29 novembre a Taranto. Se il pubblico non torna a fare gli interessi di quelli che è chiamato a rappresentare, di certo non sarà il privato a farli, per la natura stessa del suo essere.
I cinque mila lavoratori a rischio, i veleni che colpiscono il capoluogo pugliese, il ruolo dell’industria del paese nella competizione internazionale: cosa se ne farà di tutto questo assume uno sguardo privilegiato sull’idea di mondo che si vuole proporre. Sì, a dispetto del nubifragio, un tavolo caldissimo.
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