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La lunga agonia di Alitalia, abbattuta dall’incompetenza

In questi giorni l’eterna vicenda Alitalia sembra nuovamente ad una svolta, ad un nuovo e drammatico passaggio che, inserito nello scenario dell’emergenza sanitaria attuale, sembra assumere una forma ed una dimensione ancor più pesante sia dal punto di vista industriale, sia per quanto riguarda il futuro delle lavoratrici e dei lavoratori.

Purtroppo, invece di imparare dai vecchi errori e dalle pratiche industriali sbagliate sin qui adottate, sembra che in questi mesi con il nuovo governo Draghi, con quelli precedenti e con i vecchi e nuovi soggetti politici che ora tutti insieme stanno gestendo la cosa pubblica, si stia ricadendo nel solco delle solite pratiche che dilazionano i tempi e sprecano opportunità, che scaricano sui lavoratori il peso delle proprie decisioni e che soluzioni non sono e non rappresentano neanche concreti processi industriali.

Il tutto condito da una fiducia mal riposta nelle soluzioni del cosiddetto “mercato” e da un acritico europeismo che di fatto ingessano qualsiasi ipotesi che vada in senso diverso dai dogmi e dai limiti imposti dai grandi gruppi economici e finanziari internazionali.

Forse allora oggi, per non scadere nei soliti luoghi comuni che circondano la narrazione su Alitalia, è più importante che mai descrivere e sottolineare alcuni aspetti fondamentali che hanno caratterizzato la vita di quest’azienda negli ultimi decenni e soprattutto negli ultimi anni.

Vorrei provare a farlo utilizzando dei passaggi del mio racconto che ho finito di pubblicare on line in questi giorni (www.oggisivola.com).

Le prossime settimane ed i prossimi mesi saranno decisivi per il futuro di quest’azienda e dei suoi lavoratori. Sarebbe però sbagliato pensare che la storia di Alitalia sia la storia di una sola azienda e di un solo gruppo di lavoratori.

La vicenda Alitalia ci racconta la storia economica di questo paese negli ultimi 70 anni, il boom economico, la decadenza industriale, il ridimensionamento del patrimonio pubblico, la lotta dei lavoratori, la “complicità” di alcune organizzazioni sindacali, l’incapacità gestionale e strategica di governi di centro-destra e centro-sinistra, l’asservimento al culto del dio mercato e di una Unione continentale che sta facendo emergere con sempre più evidenza i limiti e le storture del sistema economico e sociale nel quale viviamo.

Da “Oggi si vola sulle ali della dignità”.

… I governi di centro-destra e di centro-sinistra che si sono succeduti in questi anni hanno continuato a fare gli stessi errori, gli stessi mediocri o pessimi interventi che difficilmente possiamo definire anche solo di orientamento industriale, mutuando la loro opera dagli “insegnamenti” delle politiche economiche e sociali che si sono rincorse in Italia negli ultimi 70 anni.

Nessuna seria programmazione economica, accettazione acritica ed internità alle politiche che hanno determinato la suddivisione del mondo in sfere di influenza economica e geopolitica che non devono essere messe in discussione. Rassegnazione ed adeguamento culturale ancor prima che politico ed economico, alla logica e alla “filosofia” che vede la supremazia del dio denaro e del cosiddetto mercato su quelle che dovrebbero essere invece le priorità alla base di ogni collettività e di ogni vivere civile: la solidarietà, la tutela dei beni collettivi, la socialità, la difesa dei più deboli e dell’ambiente.

La nostra Costituzione è stata calpestata, infranta, non rispettata e non applicata e così il lavoro è diventato una variabile dipendente dal profitto e dai margini di guadagno delle aziende che devono sempre aumentare per poi riversarsi nella finanza e produrre a loro volta enormi utili che ormai nulla hanno a che vedere con l’economia reale.

In questo contesto dobbiamo leggere e comprendere la storia e la decadenza dell’Alitalia e dell’intero trasporto aereo italiano.

La crescita dei primi anni di vita della compagnia aerea e soprattutto quella degli anni ’70 è tutta frutto di uno sviluppo incontrollato e non di un progetto a media e lunga scadenza.

La rapida liberalizzazione che successivamente ha investito il trasporto aereo ha imposto la sua logica indirizzata verso una progressiva e feroce deregolamentazione del lavoro e una sostanziale limitazione del diritto del lavoro e dello sciopero.

L’obiettivo era e rimane quello del maggiore utile ottenuto con il minor costo possibile e quindi alla contestuale ed iniziale liberalizzazione che ha favorito la nascita di innumerevoli e spesso improponibili compagnie aeree in tutto il mondo, è seguita una progressiva ed inarrestabile concentrazione di capitali e di attività in capo ad un numero sempre minore di vettori aerei.

Ciò ha favorito le grandi compagnie statunitensi e alcuni vettori europei: Lufthansa, Air France e British Airways. Non Alitalia che al pari di tante altre grandi aziende italiane nate nel dopoguerra, sono state progressivamente ridimensionate, impoverite, svendute, chiuse o abbandonate a se stesse…

Verso la metà degli anni ’90 gli accordi più o meno espliciti in ambito europeo e internazionale prevedevano che soltanto tre grandi compagnie aeree di tre grandi paesi avrebbero dovuto e potuto superare positivamente l’ostacolo della deregulation nel vecchio continente.

Tra queste compagnie aeree non c’era Alitalia, ma la Lufthansa, l’Air France e laBritish Airways.

Oltre a questa principale ed originale motivazione che ha profonde radici geopolitiche e sulle quali si gioca, chiaramente a livello generale e non solo in questo settore, la supremazia economica in ambito europeo, è forse utile ricordare tutta una serie di eventi, errori ed azioni che hanno condizionato la vita di Alitalia ed hanno prodotto l’attuale situazione.

A prescindere dall’emergenza sanitaria iniziata nei primi mesi del 2020, che sta modificando scenari e prospettive future, negli anni precedenti il traffico aereo a livello europeo era in costante crescita da anni e la quota sviluppata complessivamente nel nostro paese era assolutamente rilevante, visto che superava il 12% del totale del traffico aereo europeo.

Esistono dei fattori oggettivi di cui sicuramente bisogna tener conto e che invece spesso non sono stati considerati prima nell’analisi del contesto economico in cui ci si è mossi e poi nello sviluppo e nel fallimento dei tantissimi “piani industriali” ai quali abbiamo assistito sino ad oggi.

Per prima cosa c’è il minor peso politico dell’Italia rispetto a Germania, Francia e Regno Unito, solo per fermarci al nostro continente. Il nostro paese non è ricco come altri paesi europei e questo condiziona anche l’utilizzo del trasporto aereo per la minore capacità di spesa dei cittadini.

Il Prodotto Interno Lordo (PIL) pro capite italiano nel 2019 è stato infatti di 26.900 euro. Minore di quello medio della UE che è di 28.610 euro, di quello tedesco di 36.000 euro, di quello francese di 33.300 euro e di quello del Regno Unito di 33.000 euro.

Complessivamente il mercato del trasporto aereo italiano valeva circa 12 miliardi nel 2014 e nel 2019 è sceso a 9 miliardi, con un più che dimezzamento nel 2020. Inoltre questa riduzione colpisce in Italia molto di più Alitalia che non le low cost, come Ryanair e Easyjet.

Siamo comunque in presenza di un divario importante tra il valore del trasporto aereo in Italia nel 2019 (12 miliardi) e i circa 15 miliardi della Germania e della Francia e addirittura i 28 miliardi del Regno Unito.

Questo divario economico tra i vari stati europei si riflette anche sulla tipologia di passeggero che determina in modo evidente i ricavi delle compagnie aeree.

Per Lufthansa i passeggeri che volano in business forniscono circa il 50% dei ricavi totali derivanti dai biglietti venduti. Nel nostro paese solo il 2,5% dei posti venduti in entrata ed uscita dagli aeroporti italiani vola in una classe superiore, contro la media mondiale che è di circa il doppio.

Allo stesso tempo questo dato evidenzia la caratteristica principale del traffico da/per l’Italia, rappresentata dai flussi turistici, che sono importanti, ma producono minori ricavi rispetto alle classi business le quali non hanno carattere stagionale, si mantengono costanti e quindi sono perfettamente programmabili.

Il mercato turistico è in gran parte non uniforme nell’arco dell’anno e questo produce scompensi e squilibri nell’ambito della programmazione delle compagnie aeree e quindi nell’utilizzo ottimale degli aeromobili e degli equipaggi.

D’altra parte gli enormi flussi turistici del nostro paese, soprattutto quelli più redditizi derivanti dai voli intercontinentali, non sono adeguatamente coperti dall’operativo di Alitalia, che teoricamente potrebbe/dovrebbe avere un vero e proprio hub (Fiumicino), ma non possiede un numero di aerei di lungo raggio sufficiente per costruire una rete intercontinentale efficiente e tale da alimentare un hub.

Il mancato sviluppo dei voli intercontinentali è quindi stato determinato dalla mancanza di finanziamenti adeguati. Basta ricordare che i “capitani coraggiosi” di Berlusconi nel 2008 versarono nelle casse di CAI solo un miliardo e la stessa cifra immise Etihad poi in Alitalia SAI.

Con queste cifre non si rinnova la flotta, non si comprano aerei di lungo raggio che costano minimo 200 milioni l’uno. Per modificare la struttura della fotta in questo senso serve un impegno economico molto maggiore ed una visione strategica del tutto diversa da quella pigmea che ha accompagnato i management e le proprietà pubbliche e private che si sono succedute in questi anni.

Un impegno economico che assolutamente “non parla” con partecipazioni al capitale di compagnie concorrenti in Europa e neanche con raffazzonati piani pubblici o privati che prevedano la sola sopravvivenza di Alitalia.

Visto il tempo perso e gli errori commessi, oggi è indispensabile un progetto pubblico importante che implichi un impegno complessivo del “sistema Italia” per sostenere e sviluppare non soltanto l’Alitalia ed il trasporto aereo ma con essi l’intero impianto produttivo del made in Italy, del turismo e del paese.

Questo grave vulnus oggi produce un utilizzo massiccio di altri vettori per arrivare o partire direttamente da/per l’Italia o l’impiego di transiti in scali europei come Francoforte, Parigi, Londra e Madrid per poi arrivare nelle città italiane, magari utilizzando le stesse compagnie straniere o le low cost.

Questo aspetto è ulteriormente aggravato dagli “errori” spesso compiuti nell’applicazione delle regole che permettono a vettori stranieri di operare dal nostro territorio nazionale verso stati terzi.

Esempio classico, l’autorizzazione data nel 2013 ad Emirates di operare la Milano-New York, dove oltre ad Alitalia ci sono altri tre vettori statunitensi. È chiaro che così si riduce il riempimento degli aeromobili e diminuiscono i ricavi del vettore nazionale.

Per non continuare a fallire, oltre a tutti questi elementi di analisi e di scenario, è però indispensabile approfondire il tema e capire dove si è sbagliato in questi anni. Per fare questo penso sia molto utile una valutazione che partendo dagli ultimi dati di bilancio disponibili, cioè quelli del 2015, faccia comprendere i punti fondamentali sui quali ci si deve soffermare. Lo farò chiaramente senza entrare troppo nel particolare e nel tecnico, sperando però di fornire una panoramica sufficientemente chiara.

Come risulta dalle vicende che si sono succedute nel mio racconto, esistono due costanti che emergono nei decenni che vanno dalla fine degli anni ’90 ad oggi.

La prima immutabile caratteristica è la mancanza di un chiaro modello industriale da perseguire, un modello di business efficiente che è l’unico modo per far funzionare un’azienda che vive nell’ambito di un confronto a livello internazionale.

La seconda costante che ritroviamo è il ridimensionamento progressivo della flotta e delle attività, convinti che riducendo il fatturato ed i ricavi si potesse risanare l’azienda.

Anno tragico è stato il dopo 2008 quando si è passati a 21 milioni di passeggeri trasportati dai 31 milioni del 2007, spalancando le porte alle low-cost sui voli nazionali ed internazionali di medio raggio e regalando a Lufthansa, Air France e British una fetta ancor maggiore dei voli intercontinentali da e per l’Italia.

Così facendo non si è mai approntata la strategia più efficace ed adeguata alla crescita della compagnia e si è dilapidato un patrimonio industriale ed occupazionale enorme.

Nello specifico, le proprietà, i vertici ed i tanti piani industriali che si sono succeduti a ritmo impressionante in Alitalia, non hanno mai compreso che il mercato del trasporto aereo pretendeva una scelta chiara: se operare principalmente nel settore di lungo raggio – come hanno fatto tutte le maggiori compagnie aeree – o se invece si dovesse puntare esclusivamente sul corto e medio raggio, come le low-cost.

Questa ambiguità è stata “risolta” attraverso l’adozione di un modello ibrido che non ha prodotto che perdite e fallimenti, soprattutto dopo l’espansione dell’attività delle low-cost.

Sul versante della riduzione dei costi si è quindi proceduto nella direzione del costante e suicida ridimensionamento e della compressione del costo del lavoro. Un costo del lavoro che non ha mai rappresentato un elemento fuori controllo rispetto ai competitori stranieri.

È sufficiente riportare qualche dato per dimostrare quello che affermo. Il costo medio annuo del lavoratore dell’Alitalia è stato nel 2015 di 60.515 euro lordi, superiore a quello di Ryanair che è di 53.578, poco superiore a quello di Lufthansa e di EasyJet, praticamente uguale a quello di Iberia e molto minore di quello di British (65.566 euro) e distante tantissimo da quello di Air France (88.295 euro).

Sempre nel 2015 in Alitalia il costo del lavoro complessivo è di 592.000.000 euro e rappresenta il 18% del fatturato, superiore a quello di Ryanair che è dell’11%, ma molto inferiore a Iberia, British e Lufthansa (23%) e addirittura quasi la metà del costo del lavoro di Air France, che raggiunge il 30% dei ricavi.

Questi dati dimostrano che “l’ossessione del costo del lavoro” e dei cosiddetti privilegi di cui godrebbero i dipendenti Alitalia è un modo per sviare i veri costi, che sono invece fuori controllo e che, insieme alla mancanza di una strategia adeguata e ad un accorto ed efficace sistema di controllo di gestione, hanno notevolmente contribuito alla degenerazione della compagnia aerea italiana in questi decenni.

Il leasing degli aerei è uno dei costi principali (7% del fatturato nel 2015) ed è del tutto fuori mercato. Innanzi tutto c’è da valutare il numero esorbitante di aerei “noleggiati” da Alitalia. Dei 123 aeromobili in forza ad Alitalia nel 2016 ben 82, cioè quasi il 67% sono in leasing.

Questo comporta un costo enorme che pesa sui conti annuali della compagnia e dimostra che vere ricapitalizzazioni finalizzate allo sviluppo non ci sono mai state, se è stato necessario vendere e riaffittare gli aerei per ridurre le perdite. Nello stesso periodo Air France-KLM operava con il 45% di aerei in leasing e Lufthansa soltanto con il 2,6%.

Ma è anche il costo di questi contratti di leasing che nel 2015 è altissimo per Alitalia. Si tratta di 388 milioni di euro, superiori di circa il 15% ai costi di mercato. Ed il 15% su questa cifra enorme equivale a circa 58 milioni di euro.

Se poi a questi si aggiunge il costo relativo ad un uso errato del wet leasing, cioè ad un noleggio che comprende anche l’equipaggio, i maggiori costi secondo molti esperti del settore arriverebbero a circa 90 milioni rispetto a quelli di mercato.

Viene da chiedersi, chi e per quale motivo ha proceduto a tali contratti? C’è solo incompetenza o qualche cosa di più?

Probabilmente come avvenuto per Cimoli e Mengozzi, riconosciuti colpevoli e condannati dopo molto tempo, anche su questo aspetto come su altri che hanno caratterizzato la conduzione dell’Alitalia in questo ultimo decennio, tra qualche anno, ma sempre tardi, la magistratura svelerà qualche mistero.

Altro costo assolutamente fuori controllo nel 2015 è quello del carburante che raggiunge i 700 milioni di euro annui. Ma perché Alitalia ha pagato il carburante ad un prezzo che è superiore del 20% al valore di mercato nello stesso periodo?

In pratica si tratta di un contratto di “fuel hedging” che l’Alitalia ha concordato con alcune banche e che prevede un prezzo fisso del carburante per evitare uno scostamento elevato nel tempo.

Si tratta di fatto di un “derivato”, una scommessa che se vinta ti mantiene il prezzo del carburante fisso e magari se aumenta ci guadagni. Se invece cala il costo del carburante l’azienda deve comunque pagare il prezzo fissato a contratto. In questo caso i geni dell’Alitalia pagavano oltre il 20% in più del prezzo di mercato.

Si calcola che l’Alitalia pagando 68$ contro i 50$ medi del prezzo reale, con questa “scommessa” nei tre anni dal 2014 al 2016 abbia perso complessivamente 687 milioni di euro. Una cifra enorme che avrebbe dovuto imporre una revisione dei contratti di “fuel hedging” sottoscritti, con risparmi notevoli sui conti aziendali.

Sempre riguardo al carburante c’è da considerare che molti A320 in flotta usano un tipo di motore sottodimensionato rispetto a questo aereo e ciò produce un consumo maggiore perché in decollo è necessario più tempo per raggiungere la quota e la velocità di crociera.

Se i temi del carburante e del leasing degli aerei sono fondamentali ed influiscono indirettamente sull’occupazione, la questione relativa alla manutenzione degli aerei, oltre a rappresentare un aspetto centrale per una compagnia aerea, condiziona direttamente anche il lavoro.

Sino al 2008 la manutenzione degli aerei, anche se già ridimensionata nei dieci anni precedenti, era però effettuata principalmente all’interno dell’azienda ed anche dall’Atitech, che era di proprietà dell’Alitalia.

Colaninno e Sabelli con CAI hanno proceduto ad una esternalizzazione totale di tale attività. Un outsourcing che le grandi compagnie non effettuano mai perché ritengono che la manutenzione degli aerei, oltre a far risparmiare l’azienda, consente un controllo effettivo del proprio patrimonio (gli aerei) e della sicurezza del volo.

In aggiunta quindi al danno occupazionale ed alla carenza insita per una compagnia aerea nel dover contare su soggetti terzi per la manutenzione dei propri aerei, si calcola che tale operazione abbia fatto aumentare di circa il 10% il costo complessivo della manutenzione.

L’handling nel 2017 è pesato sui conti per circa 281.000 euro, ma in Italia l’Alitalia spende circa il 15% in più delle low-cost. A prescindere da qualsiasi altra considerazione, si tratta di un paradosso incredibile che vede la compagnia aerea nazionale svantaggiata rispetto a vettori che stanno operando in un regime di concorrenza falsata.

Altro errore strategico fatto nei decenni scorsi è stato quello nell’ambito del servizio informatico. Nel passato fiore all’occhiello di Alitalia, i vari piani che si sono succeduti negli anni hanno smantellato del tutto il Centro Elaborazione Dati della compagnia.

In un ambito industriale come il trasporto aereo e in un’epoca dove non solo la programmazione e i servizi generali di una compagnia aerea, ma qualsiasi attività, compresa la commercializzazione del prodotto, viaggiano on line e si dotano di servizi informatici specifici e riservati, l’aver esternalizzato tale funzione e di fatto cancellato professionalità e conoscenze interne, ha prodotto un indebolimento complessivo e maggiori costi.

Anche qui si può fare l’esempio di quel che si è sbagliato durante l’era Etihad. Il passaggio dal sistema informatico Arco, forse un po’ datato ma ancora in grado di reggere, al sistema Sabre per uniformare Alitalia alla compagnia degli Emirati, è durato più di un anno ed ha comportato l’addestramento di 2.000 dipendenti ad Abu Dhabi per la formazione, con costi enormi tutti a carico di Alitalia: 57 milioni più circa 5 milioni in più all’anno per l’utilizzo del sistema.

Spese pazze ed errori strategici se ne possono raccontare all’infinito, come ad esempio quelli relativi alle consulenze sia nelle dimensioni relativamente ristrette all’azienda che negli anni hanno visto dipendenti o dirigenti uscire e rientrare come consulenti, sia su più larga scala nei costi fuori mercato di aziende di consulenza finanziaria utilizzate anche impropriamente come supporto ai gestori aziendali.

Le spese folli hanno avuto un fulgido esempio nell’addestramento del personale proprio durante la presenza di Etihad. L’addestramento viene spostato dal Centro di Fiumicino ad Abu Dhabi con costi aggiuntivi di decine di milioni. Io ricordo invece quando al Centro equipaggi di Fiumicino venivano addestrati anche piloti di altre compagnie aeree.

Altra questione fondamentale è che in Italia ci sono troppi aeroporti e troppi aeroporti piccoli o piccolissimi e al nord anche molto vicini tra loro che però assorbono risorse enormi dal sistema complessivo del trasporto aereo, pagate soprattutto dalle società di gestione aeroportuale che devono aumentare le tariffe, scaricando così i costi su Alitalia (dove presente), su Enac ed Enav e quindi sull’utenza.

Al contrario, tariffe ed incentivi vengono elargiti a piene mani alle low-cost per attirare traffico e movimenti di aerei, spesso in perdita. Il confronto con i tedeschi è impietoso: in Italia nel 2019 poco più di 160 milioni di passeggeri sono passati per 38 scali mentre in Germania quasi 227 milioni hanno toccato 23 aeroporti.

Una concentrazione che migliora l’utilizzo degli aeroporti, ne riduce i costi per le compagnie, aumenta il riempimento degli aerei e conseguentemente i ricavi.

È quindi chiaro che è il sistema-paese che non sostiene complessivamente il settore del trasporto aereo italiano in modo adeguato, come invece fanno ad esempio Germania e Francia.

D’altra parte quando un ministro dell’Economia (Padoa-Schioppa), “proprietario” nel 2007 di Alitalia, affermava in piena crisi e durante una delicatissima fase di privatizzazione “Io, come ministro, volo Easyjet e mi trovo benissimo”, o quando, molto tempo dopo, un Ministro dei Trasporti (Delrio) in riunione con il sindacato confermava l’importanza strategica delle compagnie low-cost mentre Alitalia si trovava in piena crisi, è evidente che manca consapevolezza politica dell’importanza strategica dei trasporti.

Una ignoranza ed una perseveranza nello sbagliare che fa pensar male e che ha prodotto sfaceli in tutti i settori dei trasporti e quindi anche nel trasporto aereo.

Noncuranza politica, errori e difesa di interessi diversi da quelli del paese, hanno prodotto un progressivo ridimensionamento di Alitalia. Mentre Francia e Germania hanno difeso e sostenuto in ogni modo lo sviluppo delle loro compagnie nazionali, l’Italia è stata il campione del liberismo più completo in questo settore.

L’esempio più evidente è la difesa del proprio hub nazionale di riferimento. Lufthansa, ad esempio, possiede quasi il 70% dei diritti di atterraggio e partenza (slot) sui due principali scali di Francoforte e Monaco.

Questo si traduce poi nelle quote di mercato possedute dalle compagnie nazionali nei rispettivi paesi: nel 2019 l’Alitalia aveva meno del 15% del traffico complessivo in Italia, l’Air France il 35% in Francia e la Lufthansa il 44% in Germania.

Francesi e Tedeschi difendono le loro compagnie aeree, siano esse private o partecipate dallo stato e questo si è visto anche a seguito dell’emergenza sanitaria attuale con un sostegno che non si è limitato agli esborsi miliardari da parte di questi Stati alle proprie compagnie aeree.

La stessa politica delle alleanze è stata sbagliata sin dall’inizio. Come è evidente, le tre grandi compagnie europee non hanno mai pensato di stringere alleanze tra di loro, ma hanno invece costruito grandi aggregazioni con vettori europei di piccole dimensioni e soprattutto con grandi compagnie statunitensi ed orientali.

Alitalia ha scelto ripetutamente di collocarsi all’interno di SkyTeam e comunque nell’orbita di Air France e questo ha reso la compagnia italiana sempre più debole, sempre più piccola e vettore regionale, sempre meno orientata verso le direttrici intercontinentali occupate stabilmente da Air France, sempre più soggetta alla concorrenza delle low-cost su voli internazionali e nazionali.

Oggi non è troppo tardi per riuscire ad invertire la rotta di Alitalia e riportarla verso il successo e la redditività. Mentre scrivo, l’emergenza sanitaria ha riportato gran parte delle compagnie aeree sulla stessa linea di partenza.

Come nella “formula 1” dopo un incidente, le compagnie aeree, anche se con dimensioni diverse, camminano tutte lentamente sulla pista di decollo dietro una “safety car” che darà il via una volta superata la pandemia in atto.

Non sarà un ri-avvio veloce, ma progressivo, e soltanto chi si preparerà adeguatamente alla ripartenza potrà sperare di costruire un operativo ed una rete sufficienti per sopravvivere e riprendere a volare alto.

In questo Alitalia è favorita sia perché era tra gli ultimi e sta ricominciano da zero, sia soprattutto perché il segmento business riprenderà con un ritmo inferiore e con dei tempi più lunghi di quello turistico, dove la compagnia italiana è meglio orientata e registra percentualmente dei flussi maggiori dei competitori europei.

Ma Alitalia ed il suo azionista attuale, cioè lo Stato, devono assolutamente cambiare marcia e velocità. Si deve pensare ad uno sviluppo maggiore nel medio/lungo termine che oltre a dare un futuro occupazionale a tutto il personale, crei le condizioni per sfruttare al meglio la ripartenza del settore.

Serve una flotta adeguata ed un mix di aerei di lungo e medio raggio molto diversa dall’attuale o da quella precedente, con una forte componente di aeromobili che coprano le redditizie direttrici intercontinentali. Una flotta ed una rete adeguate che possano interagire con un’alleanza internazionale extra-europea che le consenta di competere con le maggiori compagnie europee.

Servono soldi e il dichiarato impegno finanziario dello Stato, nonostante le difficoltà attuali e compatibilmente con l’instabilità politica che sta attraversando il paese, è un primo importante passo al quale si devono aggiungere almeno altri due ingredienti fondamentali.

Il primo è un ridisegno complessivo del sistema del trasporto aereo in Italia. Servono regole certe che valgano sempre e per tutti, che non favoriscano le low-cost e gli altri vettori stranieri, che ridisegnino i sistemi ed i costi delle funzioni di controllo e sicurezza del trasporto aereo, riducano il numero degli aeroporti italiani e li rendano più efficienti.

L’altro aspetto prioritario è il coinvolgimento di soggetti industriali che possono produrre un valore aggiunto al processo di rilancio di Alitalia.

L’intermodalità da ricercare con le Ferrovie dello Stato, lo sviluppo dei processi di manutenzione, di “information tecnology”, di commercializzazione del prodotto e di sviluppo del settore cargo e di quello charter, sono tutti ambiti dove possono giocare un ruolo importante anche altre aziende italiane leader in questi specifici settori.

Non quindi il solito processo di esternalizzazione delle lavorazioni che ha distrutto in Alitalia un patrimonio di conoscenze e capacità professionali che tanti ci invidiavano sino a venti anni fa, ma un’operazione di ricostruzione e di reinternalizzazione di tali competenze, di un forte ampliamento del perimetro aziendale che riconsegni al paese una compagnia aerea completa e degna di questo nome.

In un’azienda che deve rimanere pubblica questo intervento di altri soggetti industriali, portatori di conoscenze ed esperienze, può avvenire anche attraverso una partecipazione diretta alla vita e allo sviluppo della compagnia aerea, che permetterebbe al tempo stesso dei vantaggi anche per le loro specifiche attività.

Per capirci meglio, l’opposto di quel che fece Berlusconi nel 2008 dove per racimolare capitali da mettere in Alitalia promise “attenzioni” in altri ambiti d’affari ad industriali che non avevano né la voglia né le capacità per intervenire nell’ambito del trasporto aereo.

Tutto questo vuol dire sviluppare un settore strategico per il paese. In molti e da molto tempo in politica si riempiono la bocca di concetti quali “sistema Italia” o “fare sistema” e poi nella realtà troppo spesso operano in senso opposto e difendono interessi diversi da quelli dei lavoratori e dello stesso paese…

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