Che aria tira nelle fabbriche alla vigilia dello sciopero generale del 26 maggio? Intervista a Sasha Colautti, esecutivo nazionale Usb del lavoro privato.
Che aria si respira nelle fabbriche?
Non possiamo di certo nascondere il fatto che tutto il comparto industriale ha subito per quasi tutto l’ultimo decennio delle politiche sindacali che hanno fatto di tutto per inibire il conflitto nelle aziende.
I contratti sottoscritti, il modello della rappresentanza sindacale, la massima diffusione della precarietà e l’ampio quadro di delocalizzazioni ha prodotto in particolare nel comparto industriale una sorta di medioevo sindacale, dove i lavoratori sono fin troppo spesso rassegnati ad essere collocati nell’ultimo gradino della nuova gerarchia feudale. Però posso dirti che ovunque si registra un’enorme attenzione sulle nostre rivendicazioni; la situazione del nostro paese che si aggrava ogni giorno di più su condizioni di vita e di salario creano spesso la condizione per la riuscita delle proteste, soprattutto nelle grandi aziende dove i lavoratori provengono da una storia fatta di conquiste e lotte impegnative. Basti pensare alla Piaggio di Pontedera o all’incredibile resilienza dei lavoratori di Stellantis e Sevel.
Ho appena concluso un lungo giro di assemblee ed i lavoratori comprendono immediatamente che la loro condizione non è accettabile, nei loro interventi si percepisce la voglia di giustizia sociale (vera e propria) e penso che siamo sulla giusta strada per estendere il quadro del conflitto, da cui proprio non possiamo prescindere, soprattutto in questa fase.
Il 26 maggio avete convocato uno sciopero generale di tutte le categorie. E’ una scelta impegnativa. La decisione dell’Usb è stata “una fuga in avanti”?
Il sindacato deve svolgere il suo ruolo fino in fondo, soprattutto quando si percepisce l’urgenza di un intervento, anche nel quadro delle scelte politiche di questo Governo. Non si deve chiedere a noi perchè scioperiamo da soli. Si dovrebbe chiedere agli altri perchè non scioperano.
In più bisogna dire che in questo caso lo Sciopero Generale da noi proclamato si inserisce in un quadro di iniziative più ampio, un percorso di ampio respiro che più avanti dovrà per forza essere allargato a chi come noi pensa che il mondo del lavoro deve reagire duramente a questo attacco continuo alla condizione si salario e di vita delle persone.
Oggi però c’è un’urgenza che non può essere gestita dentro a tatticismi, compromessi che porterebbero inevitabilmente a procrastinare nel tempo il quadro delle proteste. Il Governo ha varato il Primo Maggio una riforma spietata, che colpisce tutti i ceti più deboli. Anche questo Governo, nel solco di quello precedente, mira in esplicito al contenimento della crescita dei salari, rimuove il reddito di cittadinanza, liberalizza ulteriormente il sistema degli appalti ed il tempo determinato.
Cosa stiamo aspettando? I sindacati tradizionali si sono fatti letteralmente calpestare. La risposta non può essere un paio di iniziative il sabato dove paghi 20 euro i partecipanti per mettersi bandiera e pettorina… Bisogna aver il coraggio di bloccare il paese, come in Francia, Inghilterra, Germania.
A che punto sono vertenze industriali come Wartsila, Gkn, AcerlorMittal?
Le vertenze industriali del paese rappresentano una parte dei motivi per cui oggi in questo paese serve uno sciopero generale e serve riprendere al più presto una conflittualità ampia, che rimetta al centro il lavoro. Ed in questo paese se si vuole davvero mettere al centro il lavoro e aumentare i salari non possiamo prescindere dalla discussione sul modello di sviluppo economico e sulle politiche industriali.
Detta in modo semplice: Come era possibile difendere il salario dei lavoratori quando si è sancita la svendita dell’industria di questo paese? Come potevano difendersi i lavoratori davanti ad un quadro di delocalizzazioni, chiusure, ristrutturazioni continue? Lo stesso quadro, guardacaso, che dal 2008 ha introdotto il modello della derogabilità totale dei contratti nazionali, il prodotto dell’ “Era Marchionne” dove si è scambiato salario e condizioni di lavoro con la garanzia della presenza industriale sul nostro territorio.
Un teorema che oggi rende esplicito il disastro di questo paese, dove i lavoratori sono poveri e ricattabili da aziende e multinazionali senza scrupoli che dopo aver bruciato milioni di euro pubblici, scappano e licenziano come se nulla fosse.
Wartsila rappresenta bene questa condizione, dove il Governo commette l’errore di consegnare le chiavi della reindustrializzazione all’azienda che scappa ed oggi non ci sono soluzioni all’orizzonte. Questo accomuna questa vertenza alle altre, da Arcelor Mittal a GKN: viene delegato il privato, spesso lo stesso soggetto che ha commesso ogni genere di nefandezza, a dirimere le politiche industriali del nostro paese anche per le industrie strategiche come quella dell’acciaio.
Arcelor Mittal fa i suoi interessi ed il Governo stenta ad imporre la sua governance, il risultato è un aumento esponenziale della cassa integrazione ed un piano industriale che probabilmente non sarà mai realizzato, per il semplice motivo che al soggetto privato interessa il profitto e non ha nessuna intenzione di mettere davanti a questo gli interessi nazionali del nostro paese, a partire dalla necessità di affrontare subito il tema della transizione ecologica, dove anche qui registriamo un ritardo pesante in tutti i settori, dove solo nell’ automotive rischiamo di perdere 70.000 posti di lavoro in poco tempo.
Davanti a questa urgenza di intervento, nel derimere le politiche industriali registriamo un grande ritardo, sia da parte delle aziende che macinano profitti ma non investono, sia da parte del Governo che al di là dei proclami sul “Made in Italy” non riesce ancora creare le condizioni per tutelare davvero l’occupazione e la trasformazione in atto.
GKN è rappresentativa di questa debolezza, con le istituzioni alle prese con società senza scrupoli a cui però vengono garantite coperture e tutele fintamente rivolte al sostegno dei lavoratori. La triste realtà è che l’assenza dell’intervento pubblico ha obbligato i lavoratori di quell’azienda a sfidare completamente un sistema che non riesce a dare risposte e che invece oggi li accusa di estremismo ed utopismo (come se fosse un crimine difendere il proprio posto di lavoro); i lavoratori si sono proposti con una campagna di crowfounding a dir poco eccezionale, destinata ad un progetto di reindustrializzazione dal basso, ad un cosidetto workers-buyout per rilevare lo stabilimento e farne una fabbrica socialmente integrata col territorio.
La nostra richiesta però è principalmente indirizzata al Governo e alla Regione che devono assumersi la responsabilità di garantire un intervento pubblico, diretto, per dare gambe all’intelligenza operaia e coprire il progetto di reindustrializzazione anche sul piano politico, perchè innanzitutto vanno garantiti a prescindere tutti i posti di lavoro.
I lavoratori di GKN si stanno dimostrando una vera variante nel panorama del conflitto in Italia, ma anche davanti a questa vitalità e intraprendenza, non sarebbe per noi accettabile che le istituzioni se ne lavino le mani perchè “tanto i lavoratori si salvano da soli”. Lo stato intervenga e lo faccia alla svelta. Il 26 Maggio saremo in piazza anche per loro, anche per questo, per Wartsila, GKN, ExIlva e tutte le altre situazioni di crisi.
In Italia sono trenta anni che agisce l’emergenza bassi salari. Quali sono le caratteristiche della questione salariale oggi?
C’è abbastanza spazio sul vostro portale? Scherzi a parte, la questione salariale in Italia parte da lontano e meriterebbe parlare di quello che è avvenuto negli ultimi 30 anni per comprendere oggi in quale situazione ci troviamo. Però partiamo da alcuni temi: Sono passati 30 anni da quando è stata cancellata la scala mobile, ovvero il sistema automatico di indicizzazione dei salari all’inflazione. E dopo esattamente 30 anni l’Italia è l’unico tra i paesi Ocse in cui il salario è diminuito.
Si è imposta la narrazione degli aumenti legati al recupero di efficenza e produttività ma oggi i dati parlano chiaro: la produttività è aumentata ed i salari no. C’è un altro dato emblematico: il 97% dei contratti nazionali sono stati sottoscritti da CGIL CISL e UIL, gli stessi che oggi si sbracciano per chiedere al governo di tagliare il Cuneo Fiscale. Ma stiamo scherzando? è l’ennesima farsa per garantire soprattutto più margine di profitto alle imprese, in un paese dove il livello di tassazione sul lavoro è molto simile a quelle di altri paesi europei a noi analoghi.
Come ho provato ha spiegare nel nostro recente convegno sul salario non occorre essere degli economisti per capire che la differenza, sta nel fatto che il nostro è un paese dove il contributo del capitale nelle dinamiche di impresa non c’è. Ovvero, nel nostro paese, di riforma in riforma, di contratto in contratto si è garantito un aumento della prestazione tale ed un abbassamento del costo del lavoro che ha permesso al sistema di produzione di garantirsi quote di profitto sempre maggiori, senza dover investire nulla.
In sostanza il problema italiano non sono i lavoratori scansafatiche, che lavorano poco e che vanno in pensione troppo presto: il problema di questo paese è – guarda caso dall’eliminazione della scala mobile – che la quota degli investimenti in rapporto ai profitti è crollata del 47%. Nella sostanza le aziende investono molto meno e guadagnano molto di più.
Aumenti dei prezzi, basse retribuzioni, precarietà. Le condizioni del lavoro e dei lavoratori e lavoratrici gridano vendetta da ogni punto di vista, eppure nel paese stenta a esprimersi un conflitto sociale conseguente. Secondo voi dove sta “l’intoppo”?
In questo paese è passata l’idea che la partecipazione è uno strumento inutile per il cambiamento. E la stessa politica viene vista oggi come uno strumento incapace di produrre il cambiamento. Parlare di sindacato poi è in un certo senso come sparare sulla croce rossa: per USB una delle sfide più grandi è quella di costruire dalle ceneri, di passare attraverso questa desertificazione prodotta da anni di una narrazione a senso unico, dove i lavoratori sono stati costretti a restituire tutto.
In un certo senso proprio come avviene oggi nel quadro della narrazione bellicista, che ci vorrebbe tutti schierati a favore dell’invio di armi, la stessa narrazione a senso unico per trent’anni ha convinto le persone che era giusto accompagnare i processi di liberalizzazione dei mercati. Un fatto che ha permesso alla controparte di appropriarsi delle regole del gioco, sulla possibilità di determinare anche i rapporti di forza stessi.
Basti pensare ad una differenza per noi tragica quando si parla di Francia: scioperi come quelli in Italia non sono realizzabili a causa delle norme ed i vincoli, le limitazioni sottoscritte nei contrattti e le limitazioni per legge al diritto di sciopero. Queste limitazioni, accettate in tutto e per tutto da CGIL CISL e UIL impediscono concretamente di determinare la condizione di bloccare per davvero il paese. Scioperare per giorni, bloccando aerei, treni, semplicemente non è possibile per legge. E questo ha ridotto lo sciopero ad uno strumento sempre più depotenziato.
Ma certo è che è l’unico strumento che abbiamo per difenderci e ancora oggi può essere possibile lavorare su un percorso che lo estenda, nelle aziende tra i lavoratori. Il nostro ruolo è anche quello di voler rappresentare un modello di sindacato diverso e soprattutto una cultura del lavoro diversa. Per questo, per tutto questo, il 26 bisogna scioperare e lavorare affinché lo sciopero riesca.
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