Lo sciopero generale del 26 maggio visto dalle categorie a forte precarietà e “decontrattualizzate”. Intervista a Federico Fornasari, dell’esecutivo della Federazione del Sociale dell’Usb.
Il 26 maggio l’Usb ha convocato uno sciopero generale di tutte le categorie. E’ una scelta impegnativa. La decisione dell’Usb non può essere vista come “una fuga in avanti”?
Potrei scherzosamente rispondere che “qui non si fugge da niente e nessuno”… Poi penso a tante notti schierati insieme ai facchini in sciopero davanti ai tir che avanzano, o altrettante albe a fronteggiare plotoni di celere che vogliono sfrattare una famiglia, e mi rendo conto che non è esattamente una battuta.
Ma per rispondere seriamente alla domanda dobbiamo guardarci intorno, considerare le condizioni reali del paese e rispondere: se non ora quando?
I salari sono sempre più bassi, per una parte della popolazione non più sufficienti a vivere in maniera dignitosa; affitti e mutui sono alle stelle e il costo della vita aumenta; la sanità vede un sistema pubblico smantellato a favore, di nuovo, di soggetti privati che potranno anche garantire alti standard, ma solo a chi se lo può permettere mentre il governo italiano – anzi, i governi, perché questa è una costante da anni – spende soldi pubblici per finanziare imprese, multinazionali e cooperative anziché per garantire servizi e diritti di base. Infine, e non è certo un dettaglio, c’è la guerra e l’economia di guerra che viene imposta al paese.
Inoltre stiamo vivendo momenti di shock come quello generato dall’alluvione in Emilia-Romagna, dove vivo e dove stiamo attivamente organizzando brigate di solidarietà, che non cancellano la rabbia verso governi e amministrazioni locali che hanno scelto di mettere a profitto il territorio, attraverso cementificazione e mala gestione di zone in dissesto, senza investimenti in infrastrutture capaci di tutelare persone, case e cose dalle possibili conseguenze di queste scelte unite ai cambiamenti climatici in atto.
Con uno scenario del genere, si capisce che serve che qualcuno dia una risposta, un segnale a tutte e tutti coloro che vivono condizioni difficili: uniamoci, organizziamoci, perché la lotta quotidiana di uno è la lotta che ci accomuna tutti. Portiamola nelle piazze, tiriamo su la testa nei luoghi di lavoro per dire “abbiamo i nostri diritti, e li vogliamo riconquistare”.
Insomma, non è una “fuga in avanti” ma un grido di allarme: se quasi nessuno in Parlamento ha il coraggio di opporsi alle scelte del governo, l’opposizione va ricostruita nei settori sociali e lavorativi, dagli sfruttati, precari e discriminati di questo paese.
Voi come Federazione del Sociale intervenite in categorie di lavoratori “decontrattualizzate” o imbrigliate nell’area del lavoro nero e grigio. Come è possibile farle convergere in una giornata di sciopero?
Innanzitutto vale la pena dire che in alcuni di questi settori esistono, o stanno prendendo piede anche grazie alle lotte, forme di contrattualizzazione. Penso ai rider, dove le piattaforme hanno dovuto piegarsi alla volontà dei lavoratori e alle sentenze di diversi tribunali iniziando ad applicare contratti, anche se squallidi. Questo è uno degli ambiti che parteciperanno allo sciopero, insieme ai lavoratori esternalizzati dei beni culturali, o ai camerieri e agli stagionali che animano la campagna “Cercasi schiavo”.
Poi esistono ambiti dove è molto più complesso, come il bracciantato o il lavoro di cura domestico, o i cosiddetti “tirocinanti” delle pubbliche amministrazioni al sud. Qui è decisivo l’atteggiamento militante di USB: dove non si riesce ad arrivare con i metodi “normali” si sopperisce con casse di resistenza, presidi degli attivisti sindacali fuori dai posti di lavoro, partecipazione di lavoratori e lavoratrici alle iniziative di piazza, cui daremo vita nei territori, nel tempo che è possibile liberare da forme di lavoro che non consentono di scioperare per assenza di un contratto, che sia lavoro nero o che siano finte Partite Iva.
In Italia sono trenta anni che i lavoratori fanno i conti con l’emergenza bassi salari. Contro il salario minimo c’è un fuoco di sbarramento che va dal governo alla Confindustria a CgilCislUil. Quali sono le caratteristiche della questione salariale oggi?
Una parte significativa della risposta è già nella domanda: l’Italia è l’unico paese dell’OCSE dove negli ultimi 30 anni i salari sono diminuiti anziché aumentare. Ad aumentare invece è il costo della vita, e oggi noi “sindacalisti di nuova generazione” ci troviamo a rimpiangere la cosiddetta scala mobile, che legava gli stipendi all’inflazione.
E’ significativo inoltre che ad oggi l’indice europeo di armonizzazione dei salari ai costi di beni e servizi, l’IPCA, non tenga conto del costo dell’energia, al momento una delle maggiori voci di spesa di un individuo o famiglia.
In questo calo generale, c’è una parte del mondo del lavoro a farne le spese maggiormente: i cosiddetti “lavoratori poveri”, ovvero chi pur lavorando ha un reddito al di sotto della soglia di povertà relativa. Noi preferiamo chiamarlo “lavoro sottopagato”, poiché povero implica una condizione di esistenza, mentre sottopagato significa che è colpa di qualcuno se mi trovo in povertà.
Comunque sia, le statistiche ufficiali europee ci dicono che quasi il 12% dei lavoratori e delle lavoratrici è in queste condizioni, ma uno studio commissionato dall’ ex Ministro Orlando nel 2021 individuava una quota molto più ampia, considerando non solo la paga oraria ma la enorme quota di part time involontario, arrivando a stimare che un lavoratore su quattro si trovi sotto la soglia di povertà, e per la maggior parte si tratta di giovani, donne e migranti.
E’ per questo che noi rivendichiamo il salario minimo per legge a 10€ l’ora: non solo riporterebbe alla dignità tutta questa porzioni di lavoratori, ma costituirebbe un nuovo “pavimento” che consentirebbe di aumentare i salari anche ai livelli superiori.
Che a questa proposta sia contraria Confindustria è scontato, così come il governo che intende mantenere basso il costo del lavoro per obbedire alle indicazioni di una UE in ristrutturazione. Cgil, Cisl e Uil hanno un enorme scheletro nell’armadio: buona parte dei contratti più poveri del paese (Multiservizi, Vigilanza e Servizi Fiduciari, Commercio, Turismo e Ristorazione, Cooperazione Sociale) sono firmati proprio da loro!
Una legge sul salario minimo dichiarerebbe quindi fuorilegge tali contratti, e non farebbe che dimostrare il fallimento della contrattazione per come l’hanno portata avanti loro, in maniera quasi monopolistica, negli ultimi decenni.
Aumenti dei prezzi, basse retribuzioni, precarietà. Le condizioni del lavoro e dei lavoratori e lavoratrici gridano vendetta da ogni punto di vista, eppure nel paese stenta a esprimersi un conflitto sociale conseguente. Secondo voi dove sta “l’intoppo”?
A questa domanda si potrebbe rispondere con un trattato, ma cerco di sintetizzare isolando alcuni elementi chiave:
Organizzazioni: i grandi soggetti che hanno organizzato e dato protagonismo alle lotte per i diritti lavorativi e sociali nel secolo scorso hanno ormai del tutto abbandonato questa via, a partire proprio da sindacati come la CGIL, e in diversi casi si sono trasformati nel loro opposto. Senza voler ridurre la complessità delle lotte esistite nel nostro paese al ruolo delle grandi organizzazioni, si sente la mancanza di punti di riferimento su larga scala per chi avverte un senso di rabbia derivato da sfruttamento o privazione e potrebbe incanalarlo in un movimento collettivo che stenta a prendere piede. Lo sforzo che accomuna tutta USB è proprio quello di ricostruire un soggetto credibile capace di unire lotte, rivendicazioni e istanze in percorsi di massa.
Mancanza di opposizione politica: non sono solo i soggetti sociali che mancano da questo punto di vista, anche a livello di forze politiche non c’è stato nessuno negli ultimi decenni che abbia osato opporsi realmente ai movimenti di impoverimento, precarizzazione, privatizzazione e competizione sfrenata che hanno attraversato il paese negli ultimi decenni.
Chi in vari modi ha promesso al proprio elettorato scelte “anti-establishment” negli ultimi anni, è stato subito ridimensionato o si è del tutto “normalizzato” una volta al governo, e la Meloni pare l’ultima di questa serie.
Chi ha un minimo provato a fare politiche di redistribuzione sociale è stato forse il 5Stelle, che tuttavia oggi stenta a chiamare gli elettori alle piazze anche di fronte all’abolizione del RdC che loro stessi avevano introdotto.
Dunque, risulta sempre più azzeccato quanto diceva Trichet qualche anno fa: l’Italia sembra avere realmente un “pilota automatico” che condizione le scelte dei governi a prescindere dal loro colore.
Mentalità: termine abusato, più corretto sarebbe parlare di ideologia diffusa. Il risultato dei primi due punti è un senso di impotenza, di non contare nelle scelte che contano, che rischia di abbattersi sulla popolazione e va spezzato con decisione. Va spezzato perché si sposa fin troppo bene con il mantra di anni e anni di Democrazia Cristiana al governo: la Politica la fanno i Politici, voi semplici cittadini fatevi i fatti vostri, occupatevi della vostra sfera privata.
Il risultato sarebbe una totale passività, il non far nulla sperando che passi la nottata: non ci possiamo stare, serve un atto di riscossa e non può che venire da noi, dai settori sociali che conoscono disparità e disuguaglianze.
Repressione: chi alza la testa, chi contesta, è penalizzato, con condanne, multe, carcere o lesioni in piazza, durante le manifestazioni da parte di chi detiene il monopolio della violenza legalizzata, le forze dell’ordine.
I Decreti Sicurezza negli ultimi anni hanno inasprito ulteriormente questa condotta, con cui il governo suppone di spaventare e “disincentivare” chi vorrebbe mettersi in azione per difendere o riconquistare diritti.
Tuttavia, non possiamo limitarci ad un quadro solo negativo: la ripresa del conflitto in diversi contesti lavorativi esiste, basta pensare alla logistica, ai porti o anche ai braccianti agricoli, così come la partecipazione di nuove generazioni alle lotte studentesche, sociali, sulla questione ambientale e contro la discriminazione di genere. In queste settimane diverse “tendopoli” nel paese sembrano indicare un rilancio della lotta per la casa. Anche sull’opposizione alla guerra si sono coagulate forze politiche e sociali che hanno dato vita ad un grande corteo a Genova il 25 febbraio.
Insomma, non tutto tace, il fatto che i giornali non ne parlino – il vostro invece sì, e spesso e vi ringraziamo – non lo rende meno vero, insieme ad un contesto internazionale in cui diversi paesi vicini a noi sono attraversati da lotte di massa. Questo ci permette di sperare, ma il futuro che speriamo non verrà da solo se noi non ci mettiamo in azione.
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