Circa due anni fa era arrivata la riforma dell’arruolamento dei giovani ricercatori. Firmata da Francesco Verducci, allora vicepresidente PD della commissione Istruzione del Senato, in accordo con la ex ministra Messa, sembrava voler dare finalmente un po’ di stabilità ai precari dell’Accademia italiana.
In realtà, senza entrare nei tecnicismi di un settore la cui normazione è tutto fuorché lineare e logica, l’istituzione dei “contratti di ricerca”, della durata di due anni e pagati 35 mila euro l’anno lordi (a dispetto dei 25 mila degli assegnisti) e con maggiori garanzie per malattia e maternità nascondeva una grave insidia.
Infatti, pur garantendo un significativo aumento delle retribuzioni, ponendole più vicine a quelle europee rispetto a contratti e contrattini che spesso vengono rinnovati di anno in anno, i meccanismi di finanziamento e la povertà dei fondi pubblici avrebbe portato, di converso, a una forte stretta dei posti disponibili.
In pratica, o si sarebbe ulteriormente aperto il mondo della ricerca alle penetrazioni del privato (strada non facilmente percorribile, tra l’altro, per le materie umanistiche), oppure i pochi soldi a disposizione sarebbero stati redistribuiti su contratti di certo più vantaggiosi, ma di conseguenza banditi in minor numero.
È questa l’assurdità di un settore che, nelle varie forme di assunzioni previste, ha una mancanza di personale di oltre 40 mila unità per portare l’Italia alla media europea del rapporto docenti/studenti. Senza considerare che spesso a coprire queste mancanze sono poi i vincitori di dottorato.
I dottorandi sono figure ibride, all’ultimo livello della formazione universitaria ma proiettati anche verso l’insegnamento, ed è dunque giusto che si approccino alla didattica. Ma sono ormai diventati la manovalanza di un’università sottofinanziata e in crisi di organico.
L’XI rapporto dell’Associazione Dottorandi Italiani ha evidenziato lo stato di precarietà reddituale, lavorativa, ma anche personale e psicologica dei dottorandi. Oltre tre su quattro di loro sono poi espulsi dal mondo della ricerca, con un ricambio continuo che cristallizza la precarietà di tutto il settore.
Inoltre, l’indagine dell’Associazione, che ha raggiunto 7 mila dottorandi tra aprile e maggio 2023, ha segnalato come, a partire dal secondo anno del percorso dottorale, un dottorando su quattro lavora oltre le 45 ore settimanali, uno su due oltre 40 ore.
È il duro scontro tra le aspettative di una generazione che è stata cresciuta con l’idea che l’istruzione potesse ancora essere una via per l’emancipazione e il miglioramento delle proprie condizioni, e la realtà di un sistema in cui il lavoro intellettuale è diventato parte integrante di una catena di sfruttamento senza fine.
Questo lungo preambolo serviva a fare il punto – parziale – dello stato della ricerca italiana, alla luce dei cambiamenti intervenuti alla fine della scorsa legislatura. Ma la riforma Verducci, che già non solo non risolveva, ma anzi incancreniva alcune storture, non ha poi visto alcun decreto attuativo.
Il governo Meloni si prepara, oggi, a intervenire di nuovo sul tema, questa volta in maniera apertamente peggiorativa. La ministra Bernini ha affermato che uno schema di decreto è in pratica pronto, e che verrà reso pubblico dopo le elezioni europee.
Il lavoro preparatorio è stato svolto da un gruppo di lavoro di sette esperti, istituito lo scorso 5 ottobre. Alla sua guida vi era Ferruccio Resta, ex presidente della Conferenza dei Rettori italiani, che ha confermato di essersi ispirato al documento CRUI del 2021.
Pur dovendo aspettare la pubblicazione, i contenuti della bozza presentata all’ufficio legislativo interno e a quello del ministero dell’Economia sono già stati diffusi. Il “contratto nazionale” viene confermato (anche se, come detto, per ora esiste solo sulla carta), e vengono delineate altre cinque figure di contratto post-laurea.
Ovviamente i trattamenti sono molto diversi, ma si va dal “ricercatore aggiunto”, con contratto di sei anni ma che sconta le stesse problematiche del “contratto nazionale”, a borse di sei mesi, che rendono impossibile farsi un’idea sulle proprie prospettive di vita.
In sostanza, l’ulteriore frammentazione del panorama contrattuale di chi cerca di costruirsi un futuro nel mondo della ricerca non servirà a risolverne i problemi strutturali, ma solo a precarizzare ulteriormente le fasce entranti di questo mondo.
E come avviene oggi, probabilmente anche in futuro l’università italiana continuerà a reggersi sulla proroga degli assegni esistenti, come è già successo col decreto Milleproroghe alla fine dello scorso anno.
La prospettiva nell’Accademia rimane dunque quella di stipendi bassi, con pochi mesi per trovare il successivo contratto (magari pure lontano da casa), senza tempo per fare ricerca e solo quello per coprire i buchi di organico. Attendendo il giusto concorso e ‘l’allineamento dei pianeti’ affinché si trovi una stabilizzazione impossibile per la quasi totalità dei giovani che lavorano in questo mondo.
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