La domanda più banale che viene da porsi ogni volta che qualcuno muore dopo un arresto è: “se non fosse stata arrestata la vittima sarebbe ancora viva?”. Posta in modo più complesso, la domanda che potrebbe inaugurare un corso di studi e approfondimenti statistici sarebbe: “è dimostrabile statisticamente la correlazione tra arresti di polizia e arresti cardiaci o è sempre un caso?”. E quanta affinità esiste tra l’applicazione perfetta dei protocolli previsti in caso di fermo e il riproporsi sempre più frequente della morte del fermato, è un caso anche quello? Il ginocchio piantato sul collo di Riccardo Magherini, ad esempio, morto a Firenze in una notte d’estate, era piegato correttamente o doveva essere collocato qualche vertebra più in giù? I manganelli che spezzarono il cuore di Federico, si spezzarono a loro volta secondo protocollo oppure no? Il fatto che nessun carabiniere sia stato sfiorato da indagini sulla morte di Stefano Cucchi, è dovuto all’applicazione perfetta dei protocolli? Misteri della fede nella divisa. Che come ogni fede non conosce dubbi ma solo assiomi.
Stando a quanto affermano i difensori dei due carabinieri e dei sei poliziotti imputati di omicidio preterintenzionale per la morte di Giuseppe Uva, la notte del 14 giugno 2008 i loro assistiti agirono correttamente e secondo protocollo. Ciononostante Giuseppe Uva andò incontro alla sua morte. E dopo sei anni e mezzo di finti processi di malasanità celebrati per evitare il vero processo, quello di malapolizia che non c’era mai stato e che finalmente è cominciato pochi mesi fa, nelle aule giudiziarie di Varese si ha sempre la sensazione di fare pochi progressi, si respira lo strano atteggiamento di chi vuole fermarsi sempre a mezzo passo dalla verità.
Ieri in aula ha parlato il supertestimone Alberto Biggiogero. Era la prima volta che veniva ascoltato ufficialmente. Il suo ultimo interrogatorio risale a quando c’era ancora il pm Agostino Abate a gestire il processo.
All’epoca Biggiogero venne convocato per fornire la sua versione sugli eventi di quella notte, ma Abate sembrò premurarsi più che altro di vagliarne l’integrità psicofisica, la sua inclinazione all’abuso di alcool e droghe, con l’obiettivo evidente di demolirne l’attendibilità. Demolire l’attendibilità dell’unica persona che era vicina a Giuseppe quella notte nella caserma di Varese, perché arrestato insieme alla vittima, significa demolire praticamente il processo. Niente supertestimone ergo niente tesi del pestaggio, degli abusi di potere, delle urla. Insomma, niente protocolli ben applicati e ben sventolati da tutti i difensori di tutti i casi di malapolizia del mondo. Anche a Ferguson, se ci facciamo caso, lo standard “ho agito secondo le regole” è valso al poliziotto sparatore la salvezza dall’incriminazione.
Alberto Biggiogero è una persona distrutta. Sono sei anni e mezzo che deve difendersi da assalti di ogni tipo, cominciando – lo ripetiamo – dalle aggressioni verbali di giudici e procuratori, passando per la malcelata ironia di certa stampa locale varesina che non manca mai occasione di sbeffeggiarlo, insultarlo, deriderlo. Prima che un teste Alberto “è un tossico”. Prima che amico di Giuseppe Uva, arrestato con lui quella notte, Alberto “è uno che abusa di alcool e psicofarmaci”. E certo, non aiutano quelle piccole contraddizioni nelle quali Alberto di tanto in tanto cade, facilmente aggredibili; né aiutano le battute che Alberto fa per difendersi dalle frecciate e sorrisini di sufficienza che a turno gli arrivano dal pm, dagli avvocati difensori, dagli imputati, dall’usciere del tribunale, dal passante d’occasione. Specularmente ad Abate che gestiva il precedente processo, anche Alberto Biggiogero è un uomo solo contro tutti anche se sul fronte opposto.
Alla luce dell’interrogatorio fiume di ieri a Varese, la speranza che il nuovo processo possa prendere una strada diversa sta già miseramente naufragando. Come si parlava prima della precaria vita del morto, della sua vita sregolata, del suo giro di amicizie equivoche, si continua a farlo anche oggi. Come in passato Abate chiese ad Alberto durante la deposizione se “avesse bisogno di droghe” rispondendo alla richiesta di un caffè da parte del testimone, anche ieri si è sentito qualcuno nei corridoi dire “forse gli serve un po’ di crack”, quando Alberto vista l’insostenibile pressione dell’aula bunker ha accusato un malore.
Nulla di nuovo. Tutto già visto. Quanto peso avranno allora gli assi portanti della testimonianza di Biggiogero, ovvero le circostanze che ha sempre riferito, in ogni sede, senza mai cadere in contraddizione? Alberto ha sempre detto di aver sentito le urla di Giuseppe in caserma. Alberto ha sempre riferito che quella sera uno dei carabinieri aveva urlato “Uva proprio te stavo cercando, adesso te la faccio pagare”. E c’è quella telefonata al 118 nella quale Alberto, in preda al panico, con l’adrenalina in corpo e non certo il crack, pregava di mandare un’ambulanza per salvare il suo amico. Il resto, ovvero i cinque minuti in meno o i cinque minuti in più rispetto a un determinato orario, il carabiniere che afferra Uva con la mano destra invece che con la sinistra, il cappello dell’altro carabiniere a terra o sul sedile passeggero, contano più di tutto il resto? Bastano piccole discrepanze dovute al perdersi della memoria di un evento accaduto sei anni e mezzo fa, rispetto a certezze acquisite già in decine di atti noti e stranoti a tutti? Evidentemente si. Evidentemente questo processo deve andare ostinatamente in una certa direzione e nulla potrà impedirlo. Ancora una volta.
Il clima è ostile e si è capito immediatamente. L’udienza di ieri era partita col presupposto dell’inattendibilità, secondo l’avvocato di Lucia Uva, Fabio Ambrosetti, e quindi il corso della deposizione sembrava già chiaro dall’inizio: “il teste Biggiogero ha sostanzialmente confermato il nucleo delle precedenti deposizioni e il processo è ancora lungo”, chiosa secco.
E Lucia: “Ho ancora fiducia nella magistratura, in particolare di questa nuova pm Daniela Borgonovo”.
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