È finita con l’assoluzione piena di tutti gli imputati. L’esito scontato del processo per la morte di Giuseppe Uva è arrivato ieri sera intorno alle 19, dopo quattro ore di camera di consiglio. I due carabinieri e i sei poliziotti accusati di abuso d’autorità, abbandono d’incapace, arresto illegale e omicidio preterintenzionale sono usciti puliti dalla vicenda, mentre dai familiari di Giuseppe è arrivato soltanto un grido: «Maledetti».
«Una sentenza annunciata», hanno detto i militanti di Acad, e in effetti il pm Daniela Borgonovo, alla fine, era arrivata pure lei a chiedere l’assoluzione delle divise in aula, seguendo la scia già tracciata dai suoi predecessori Agostino Abate e Felice Isnardi, entrambi respinti dal Gup che un paio di anni fa ordinò il processo. Con queste assoluzioni in serie, la morte di Uva è da ritenersi ufficialmente priva di cause, almeno per la giustizia italiana. I fatti: la notte tra il 13 e il 14 giugno del 2008, l’uomo – 43 anni, di professione operaio – venne fermato ubriaco per strada mentre insieme all’amico Alberto Biggiogero stava spostando alcune transenne in mezzo alla strada. Portato in caserma, non si sa bene cosa sia successo fino al suo arrivo in ospedale, dove Giuseppe sarebbe morto nel giro di qualche ora.
L’unica spiegazione ufficiale, a questo punto, parla di una crisi di nervi da parte di Uva in caserma, seguito poi da un Tso e dal ricovero in ospedale. Biggiogero, interpellato più volte come testimone, ha raccontato di aver sentito Giuseppe urlare, ma le sue parole non sono risultate credibili alle orecchie dei giudici. La sua versione dei fatti è stata giudicata contraddittoria, parziale e, soprattutto, non ha giocato a suo favore il fatto di essere stato sotto l’effetto di stupefacenti e alcol, quella notte.
L’avvocato delle divise, Luigi Di Pardo, dal canto suo ha descritto Giuseppe come «un clochard sporco e puzzolente» che «viveva di espedienti» dopo essere stato «abbandonato dai suoi familiari che ora sono in cerca di un risarcimento». Il «clochard sporco e puzzolente», secondo il legale, non poteva essere l’amante della moglie di uno degli agenti che lo arrestarono quella notte. Questo particolare della storia è stato tra i più dibattuti durante il processo: per la famiglia di Giuseppe si trattava del movente delle botte prese in caserma, mentre per la difesa era soltanto una calunnia bella e buona.
Lucia Uva pure è finita spesso e volentieri al centro del mirino dell’avvocato Di Pardo: accusata di aver «manipolato come un burattino» Biggiogero, avrebbe fatto parte addirittura di una «task force di bugiardi per costruire un castello accusatorio che si è rivelato inconsistente». Secondo il senatore Pd Luigi Manconi – presidente della Commissione diritti umani del parlamento – si tratta di «una iniqua conclusione di un processo iniquo. Un processo condizionato da un’indagine condotta in maniera pedestre, fino all’altro ieri, dal pubblico ministero Agostino Abate».
Mario Di Vito
- © Riproduzione possibile DIETRO ESPLICITO CONSENSO della REDAZIONE di CONTROPIANO
Ultima modifica: stampa