“Sai cosa è successo a Dino?” chiedevano nei giorni scorsi migliaia di manifesti affissi sui muri della Capitale ai passanti. La risposta il giorno dopo, quando altri manifesti ricordavano che “A Dino gli ha sparato la polizia”, che “Dino è morto con le mani alzate dopo lo sparo di un poliziotto”.
L’iniziativa della famiglia e degli attivisti di Acad, l’Associazione contro gli abusi in divisa, è riuscita ad attirare l’interesse dei media e dei cittadini sulla vicenda di Bernardino Budroni che, quasi cinque anni fa, esattamente il 30 luglio del 2011, venne ucciso da un colpo di pistola sparato da un agente di polizia (un altro colpo andò a vuoto). Il quarantenne romano di Fonte Nuova era in auto sul Grande Raccordo Anulare, inseguito da una pattuglia dopo che aveva dato in escandescenze davanti alla porta dell’abitazione della sua ragazza, nel quartiere di Cinecittà. Colpi ai cancelli e alla porta, sms minacciosi, disturbo della quiete pubblica, la ragazza chiama la polizia che quando arriva vede l’uomo allontanarsi a bordo della sua automobile e lo segue. Alla fine dell’inseguimento notturno, nei pressi dello svincolo di via Nomentana sul Gra, Budroni sbatte violentemente contro il guard rail, freddato da un proiettile che gli trapassa il cuore e un polmone, sparato da un agente di polizia di ventotto anni.
“La verità è più difficile da ottenere se la controparte indossa una divisa” ha ricordato ieri alla Camera, nel corso di una conferenza stampa, Claudia Budroni, la sorella della vittima. Come in molti altri casi di malapolizia, la famiglia è reduce da anni di silenzi, perizie e controperizie, testimonianze contestate e smentite, scarsa collaborazione – se non una vera e propria omertà – da parte dei poliziotti coinvolti a vario titolo nella vicenda che allora destò l’indignazione dell’opinione pubblica capitolina. Una indignazione, come spesso accade, smorzatasi man mano che il tempo passava e la vicenda sulle pagine dei giornali perdeva visibilità fino a scomparire. Per questo la necessità di riportarla in primo piano, attraverso la trovata dell’affissione sui muri di Roma di diecimila manifesti, in vista dell’inizio del processo di secondo grado che, a cinque anni di distanza dall’omicidio, si apre lunedì.
Il procedimento di appello, occorre dirlo, non parte proprio bene. Il primo grado si è concluso il 15 luglio del 2014 con l’assoluzione dell’agente che esplose il colpo mortale, mentre il pubblico ministero Giorgio Orone aveva chiesto almeno una condanna per ‘omicidio colposo’ visto che Budroni era inerme e disarmato e il poliziotto non aveva quindi alcuna necessità di usare l’arma di ordinanza. Il magistrato che ha ordinato l’assoluzione la pensava diversamente, per lui l’agente fece un uso legittimo dell’arma per interrompere una “grave e prolungata resistenza”.
L’avvocato Fabio Anselmo, che assiste la famiglia, denuncia quello che definisce l’accanimento delle forze dell’ordine contro la vittima dell’ennesimo caso di malapolizia che nel 2010 era stato denunciato con l’accusa di aver rubato la borsa della sua ex fidanzata, poi ritrovata in casa sua insieme ad un fucile e ad una balestra. La cosa è costata a Budroni una condanna post mortem a due anni e un mese di reclusione per rapina e detenzione illegale di armi. “Abbiamo chiesto una nuova perizia sulla modalità in cui sono stati esplosi i due colpi – ha spiegato Anselmo durante l’incontro con i giornalisti alla sala stampa della Camera – riteniamo che gli spari non siano in rapida successione”.
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