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Ego te absolvo. Il ministero “perdona” le condotte della polizia in carcere nel marzo 2020

Ego te absolvo a peccatis tuis: potrebbe concludersi così la relazione finale presentata il 17 agosto dalla commissione ispettiva del ministero della giustizia incaricata di far luce su quanto accaduto durante e dopo le proteste dei detenuti avvenute negli istituti penitenziari nel marzo 2020, “sui comportamenti adottati dagli operatori penitenziari per ristabilire l’ordine e la sicurezza e su eventuali condotte irregolari o illegittime”.

Una commissione istituita nel luglio 2021 dall’allora capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Bernardo Petralia, nominato dal ministro Bonafede e succeduto a quel Francesco Basentini che si era dimesso a causa delle polemiche suscitate dalle scarcerazioni di presunti boss per gravi ragioni di salute, nel pieno dell’epidemia Covid.

Agli inizi del 2022, però, anche Petralia si è dimesso dal suo incarico, e la relazione è arrivata sulla scrivania del nuovo capo Dap, Carlo Renoldi, accompagnata da un documento di due pagine nelle quali si elencano alcune iniziative messe in atto dal Dipartimento dopo i fatti del 2020.

Le più rilevanti consistono nel rifornimento dell’equipaggiamento in dotazione alla polizia penitenziaria per circa ventimila guanti antitaglio, ottomila cinquecento caschi antisommossa, duemila sfollagente e duemila kit antisommossa, come a sottintendere che la soluzione per il controllo e la gestione delle carceri non possa che passare per la violenza.

Lascia ancor più perplessi in questo senso l’istituzione, in alcuni provveditorati, dei cosiddetti Gruppi di intervento rapido, gli stessi che (come emerge dagli atti del processo in corso per i fatti avvenuti nel carcere di Santa Maria Capua Vetere) hanno esasperato un clima di tensione già esistente, fino a rendersi protagonisti, nel caso del penitenziario casertano, di quella che la stessa procura non ha esitato a definire come una “mattanza”.

Ventidue ispezioni in sei mesi

L’obiettivo della Commissione era quello di esaminare “da dentro” quanto accaduto durante e dopo le proteste che i detenuti avevano messo in atto, preoccupati dal clima di paura provocato dallo scoppio della pandemia e della sospensione dei colloqui in presenza decisa nei primi mesi del 2020.

Sono stati ispezionati ventidue carceri, classificati dallo stesso dipartimento come “sedi di rivolte”. Gli istituti sono stati visitati tra il settembre 2021 e il marzo 2022 e per ciascuno è stata stilata una relazione dettagliata, includendo anche i verbali delle persone sentite che, a vario titolo, sono state coinvolte nei fatti (si è scelto di fare eccezione dei detenuti, poiché, secondo quanto scritto, in molti casi coinvolti in procedimento penali pendenti).

Il clima di terrore, diffuso dai media e incrementato dalle confuse notizie che venivano da fuori, è stato individuato come una delle cause delle proteste dei detenuti, ma un ruolo viene attribuito anche alla “produzione normativa e para-normativa ‘a cascata’ dettata sull’onda dell’emergenza continua”.

In particolare, la relazione chiama in causa il d.l. 8 marzo 2020 (che avrebbe avuto “un effetto significativo sulla genesi di quasi tutte le sommosse in esame, fungendo da detonatore di altre consistenti cause di malessere che già albergavano tra la popolazione detenuta”) e le confuse circolari del Dipartimento – sostituite in breve tempo da nuove indicazioni – che hanno contribuito a creare uno stato di smarrimento generale tra tutti coloro che operavano in carcere, compresi, ovviamente, i detenuti.

Dall’esame della documentazione utilizzata dalla Commissione si evince che “tra il 7 ed il 12 marzo 7517 detenuti hanno inscenato manifestazioni di protesta collettive caratterizzate da battiture, rifiuto del vitto, lancio di oggetti ed atti vandalici che hanno interessato cinquantasette istituti penitenziari, nonché più violente rivolte caratterizzate da devastazioni delle strutture, atti di violenza nei confronti del personale penitenziario e sanitario, sequestri di persona, evasioni in massa e altro ancora”.

In soli due giorni (tra l’8 e il 10 marzo) sono decedute tredici persone; settantadue detenuti sono evasi dal carcere di Foggia (in parte rientrati e in parte riarrestati in seguito); sono stati avviati numerosi procedimenti penali a carico di detenuti coinvolti nelle proteste e sono stati calcolati – bisognerebbe valutare in che modo, considerando il degrado preesistente delle strutture – milioni di euro di danni.

Non può dirsi, allora, che il fenomeno sia stato casuale, né che si sia trattato di un’eccezione: è evidente che la gestione dell’emergenza è stata carente, improvvisata, priva di qualsiasi tipo di lettura che potesse consentire la prevenzione delle reazioni che si sono poi scatenate.

La “regia occulta”

Nella relazione si ricercano, istituto per istituto, le motivazioni che hanno spinto i detenuti a protestare. Per esempio, tra gli eventi avvenuti nel carcere di Salerno – il primo in cui ci sono state rimostranze – si fa riferimento a un “papello” consegnato dai detenuti alle autorità durante le trattative per spegnere la protesta.

Il documento appare tutt’altro che pretestuoso, tanto che la Commissione segnala come il “papello” contenga precise richieste di cautela sanitaria, a cui si aggiungono richieste di attivazione dei video-colloqui e, ancora, la richiesta di aumento del personale nelle ore notturne.

Nonostante i concreti riscontri rispetto al fatto che il documento sia stato redatto dai detenuti dopo l’inizio delle proteste (a seguito di una interlocuzione con il Garante regionale Samuele Ciambriello), si è tentato di dimostrare l’ipotesi di un disegno preordinato all’origine delle sollevazioni, salvo poi constatare che “la diffusione in tempo reale dei contenuti del ‘papello’ sugli organi di informazione […] e all’interno degli istituti di pena, possa avere avuto l’effetto di provocare un effetto emulativo rinforzando analoghi propositi di rivolta dei detenuti più facinorosi anche negli altri istituti”.

D’altronde, le indagini sono state svolte dal Nucleo investigativo regionale della polizia penitenziaria che ha analizzato i tabulati telefonici di alcuni cellullari rinvenuti in carcere senza rinvenire nessun elemento utile ad avvalorare l’ipotesi di una “regia occulta”.

La Commissione dà piuttosto atto della situazione di totale fatiscenza e sovraffollamento degli istituti e in molti casi si riferisce chiaramente che non può essere sottovalutata l’incidenza sulle proteste delle “poco decenti condizioni di vita dell’istituto e dell’elevato indice di sovraffollamento”, considerati come fattori destinati ad amplificare la paura del contagio e a influire negativamente sullo stato d’animo dei detenuti, molti dei quali fragili e con dipendenze da alcool e assunzione di droghe (una fotografia fedele di quello che accade in molti degli istituti penitenziari e che, da anni, invano, viene denunciato da più fronti).

Le condizioni del carcere di Modena sono considerate per esempio “compromesse” ben prima dell’inizio delle proteste; anche qui si dà atto di un elevatissimo numero di persone con problematiche di tossicodipendenza, e i detenuti sono 547 a fronte di una capienza massima di 361.

Per quanto riguarda i detenuti che sono stati trovati morti, ufficialmente a causa dell’ingerimento massiccio di psicofarmaci e metadone, vale per tutti lo stesso referto: “Accompagnato da agenti in PMA, in arresto cardiocircolatorio, cianotico, assenza di polso e respiro. Segni esterni traumatismo non evidenti”.

Niente di diverso per i detenuti morti durante il trasferimento o una volta giunti alla nuova destinazione.

Nel caso specifico, la Commissione sembra mantenere dubbi “per quanto riguarda l’ipotesi […] che da parte della polizia penitenziaria possano esservi state violenze in particolare ai danni di un gruppo di detenuti nella fase prodromica al trasferimento in altri istituti, mentre si trovavano radunati in un locale della caserma agenti in attesa di essere identificati e perquisiti”.

Epperò, si prende atto del fatto che in mancanza di video riprese, di verbali di denuncia della polizia penitenziaria o di referti medici, la Commissione non è in grado di esprimere una autonoma valutazione su quanto accaduto.

Tornando al tema delle presunte regie occulte, la Commissione esclude anche una possibile regia della criminalità organizzata. Per tutti gli istituti analizzati, – ovvero Napoli Poggioreale, Pavia, Padova, Cremona, Milano San Vittore (tasso di sovraffollamento del 96%), Bologna, Foggia, Matera, Roma Rebibbia N.C., Termini Imerese, Rieti (dove sono deceduti due detenuti e altri sono stati trasportati in ospedale a seguito dell’assunzione di psicofarmarci, eventi per i quali pendono dei procedimenti penali contro ignoti), Melfi (dove pende un procedimento per violenza a danno dei detenuti per il quale è stata richiesta l’archiviazione dalla procura di Potenza), Ferrara, Alessandria, Isernia, Siracusa, Palermo Pagliarelli e Trapani – le problematiche individuate all’origine delle proteste sono sempre le stesse: paura del contagio, sovraffollamento, mancanza di comunicazione con i detenuti, chiusura dei colloqui, omessa fornitura di qualsiasi tipo di strumento di prevenzione del contagio e richieste di provvedimenti di clemenza o di liberazione da parte della magistratura di sorveglianza.

Un caso isolato?

L’affannoso e infruttuoso tentativo di individuare una “regia occulta”, oltre che cause esogene alle proteste (la presenza di familiari e attivisti fuori gli istituti penitenziari nei giorni delle rivolte o le richieste da parte di associazioni per provvedimenti di liberazione anticipata), depotenzia le conclusioni della relazione.

Quest’ultima, infatti, con riferimento ai fatti di Modena e Melfi, fa trasparire dubbi rispetto al corretto operato della polizia penitenziaria, ma non si spinge oltre in ragione delle indagini ancora in corso o la mancanza di elementi documentali e probatori.

L’impossibilità di mettere in relazione la risposta scomposta e violenta degli agenti di polizia penitenziaria con la presunta esistenza di un piano preordinato palesa piuttosto la preoccupante incapacità dell’amministrazione di una lettura efficace della realtà e dei fenomeni che si sviluppano dentro e intorno al carcere.

Una deficienza che rende sterile ogni tentativo di ricostruzione a posteriori di ciò che è avvenuto in quei giorni e incapace di proporre qualsiasi minimo miglioramento dell’esistente.

Certo, è apprezzabile che si faccia riferimento alla situazione indignitosa di vita dei detenuti, e alla totale impreparazione degli istituti nella gestione dell’emergenza Covid, ma proprio per questo non può accettarsi il meccanismo autoassolutorio con cui si conclude il documento e che stride, portando alla luce tutte le loro contraddizioni, con i comportamenti e le parole della ministra Cartabia in visita in vari istituti penitenziari proprio il giorno di Ferragosto.

Infatti, come in un’excusatio non petita, la relazione si conclude con un riferimento alle condotte violente che gli agenti di polizia penitenziaria hanno tenuto nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, definendole “eccezioni alla regola”, “casi isolati che non possono certamente scalfire la reputazione dei tanti servitori dello Stato che ogni giorno lavorano negli istituti penitenziari del nostro Paese in condizioni difficilissime, con spirito di sacrificio e senso di responsabilità istituzionale”.

Su quanto la vicenda campana (con tutta la catena di comando coinvolta, fino ai più alti livelli) possa considerarsi un caso isolato, in un contesto nazionale che ha coinvolto in pochi giorni quasi sessanta carceri e provocato tredici morti, bisognerebbe interrogarsi seriamente.

Solo in parte, infatti, potrà rispondere a questa esigenza la Corte d’Assise di Santa Maria Capua Vetere.

* da NapoliMonitor

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