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Grecia strozzata, di nuovo sull’orlo del baratro

 

Una cosa sola sembra certa al termine di in vorticoso giro di incontri a Bruxelles e ad Atene: non si deve neppure parlare di «ristrutturazione del debito» greco e, quindi, di uscita dalla moneta unica. Per averlo fatto, citando fonti anonime o difficile da identificare, è finita sotto inchiesta la rivista tedesca Spiegel. Turbando, a dir poco, i mercati.

In mattinata, ieri, è arrivato l’ennesimo ukaze di Standard&Poor’s, una delle tre famigerate agenzie di rating che «decretano» – dall’alto dei loro colossali conflitti di interesse (sono di proprietà di grandi investitori, non certo «autorità terze» – quali paesi o quali imprese devono diventare oggetto di pressione speculativa. Il rating ellenico è stato tagliato di ben due livelli, da «B» a «BB-», quasi un record tra i titoli di stato «spazzatura» (alla pari solo con Bielorussia e Senegal). A seguire si sono fatte vive anche le due «cugine» – Fitch e Moody’s – per anticipare decisioni analoghe. Immediata la reazione pavloviana dei «mercati»: lo spread rispetto all’interesse pagato dai bund tedeschi è salito in maniera tale che se oggi i greci dovessero piazzare titoli di stato dovrebbero assicurare un interesse del 15%.
Assurdo, ma vero. E quindi tutti sanno che nel 2012 la Grecia non riuscirà a «piazzare» altre obbligazioni in sostituzione di quelle a scadenza. Di qui ha preso corpo la notizia – più volte inutilmente smentita – di un nuovo piano di aiuti da parte della «trojka» che ieri era in vista ad Atene: Fmi, Banca centrale europea e Ue. 27 miliardi serviranno per tamponare il 2012, esentando così le finanze elleniche dal doversi «rifornire» sul mercato a tassi esplosivi; altri 32 serviranno per il 2013.
Aiuti che molti elettorati europei non vogliono finanziare (i più espliciti sono stati in finlandesi, che hanno premiato un partitino nazionalista prima semisconosciuto), ma anche i tedeschi. Che però hanno nelle proprie banche (private!) una marea di titoli greci invendibili, e che proprio non possono permettersi una «ristrutturazione» – ovvero un mancato pagamento anche parziale – del debito di Atene.
C’è da ricordare che questi «aiuti» non sono regali, ma prestiti. E ad un tasso da strozzini. Si è capito solo ora, da parte della trojka, che l’anno scorso si era esagerato: tassi di interesse troppo alti e con obbligo di restituzione in soli tre anni. Un modo certo di condurre il paziente a morte. E infatti il periodo è salito a 7,5 anni, mentre il tasso è sceso di un punto (4,2%). Non per caso oggi la Grecia sarà bloccata dal decimo sciopero generale in un anno, indetto dai sindacati Adedy, Gsee e Pame.
Ma ieri i« salvatori» hanno dovuto discutere anche di Portogallo. La Commissione ha approvato il programma di «riforme» preparato dal governo di Lisbona – praticamente senza fiducia parlamentare – per il triennio fino al 2014. Era il passaggio decisivo per sbloccare 78 miliardi di prestiti (ripartiti su 11 milioni di abitanti, neonati compresi) al tasso del 5,5% annuo. Dulcis in fundo, l’Irlanda. Un paese indicato a lungo come «modello», con un debito pubblico ad appena il 12% del Pil (l’Italia è al 120%, la Grecia al 143%), ma che nel giro di due anni ha dovuto svenarsi per «salvare» le sue banche che si erano avventate in speculazioni sui titoli «tossici». Anche qui saranno ridotti i tassi di interessi sugli «aiuti», che si stanno rivelando – come già accaduto per Argentina e altri – una vera maledizione.
Dopo 4 anni di crisi finanziaria, dunque, non si vede via d’uscita. A 12 mesi dalla «crisi del debito sovrano» siamo tornati al punto di partenza. Ma con molte cartucce in meno da sparare.

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