Il ministro delle finanze di Papandreou – George Papacostantinou – deve trovare entro fine anno 6 miliardi di «nuovi risparmi» per finanziare il debito pubblico in affanno crescente (anche a causa degli «aiuti» ricevuti da Bce e Fmi, spiegava qualche giorno fa Martin Wolf sul Financial Times). La scelta è caduta sul solito mix di tagli veri e propri e di vendita dei gioielli di stato.
Ma non basterebbe comunque a raggiungere la cifra prefissata. Verranno quindi messe in vendita la compagnia telefonica pubblica Ote, la società elettrica Deh, le autostrade e anche le lotterie. In più, il governo ha nominato una commissione di nove consiglieri di stato che dovranno stendere una mappa di tutti gli immobili pubblici controllati dai diversi ministeri, in modo da definire lo status legale di proprietà e il valore di mercato. Il primo passo indispensabile per metterli all’asta.
Questa mossa dovrebbe in qualche modo chiudere la discussione che ha dominato i giorni scorsi, tra i sostenitori della necessità di «ristrutturare» il debito ellenico allungando le scadenze di restituzione e quanti, invece, chiedevano di accelerare il piano di «riforme economiche». Chiaro chi ha vinto. Sul primo fronte c’erano alcuni governi europei, sul secondo la Bce, ma soprattutto la Germania (principale finanziatore del piano di «aiuti» e, soprattutto, la più esposta verso i titoli di stato greci con le proprie banche private).
Nel calcare la mano sul «rigore», la cancelliera Angela Merkel si è lasciata andare a considerazioni ritenute – in Europa, ma anche in Germania – un tantino razziste e persino dannose per l’unità continentale. Non sono piaciuti, in particolare, gli accenni alle «troppe vacanze» di cui godrebbero tutti i lavoratori dei paesi «meridionali» in crisi (Spagna, Portogallo, Grecia; ma ha sorvolato sull’Irlanda); o sull’età pensionabile. I più piccati sono risultati gli spagnoli, che hanno puntigliosamente citato i dati europei: lavorano più ore l’anno dei tedeschi e vanno in pensione più tardi; ma guadagnano la metà. E fanno i conti anche loro in euro.
da “il manifesto” del 20 maggio 2011
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