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Il governo senza più idee

“Tratto su tutto, non sulle pensioni di anzianità”, sembra che abbia detto Umberto Bossi nel Consiglio dei Ministri conclusosi ieri sera Una posizione che ha portato a un passo dalla rottura nell’esecutivo e che ha costretto a prolungare le trattative in un summit ristretto tra il presidente del Consiglio, il ministro dell’Economia Tremonti e lo stato maggiore leghista rimasti a cena a Palazzo Chigi. Un vertice d’emergenza per cercare una soluzione a un’impasse che secondo molti mette a repentaglio la stessa sopravvivenza dell’esecutivo.
La Lega appare preoccupata delle ripercussioni tra il “popolo padano” di una manovra sulle pensioni. “I lavoratori hanno già pagato il prezzo della crisi, la riforma delle pensioni è già stata fatta, la soluzione va trovata altrove” è l’indicazione leghista, secondo cui un’ulteriore stretta sulle pensioni non risolverebbe i problemi dei conti pubblici ma avrebbe il solo effetto di alzare pericolosamente il livello della tensione sociale, di lasciare comunque a rischio la tenuta del governo, con la possibilità di andare al voto nel 2012 dopo aver varato però una misura assai impopolare. Ma lo scontro sulle pensioni in realtà potrebbe essere anche il punto di caduta delle tensioni interne che agitano la Lega da mesi, tra chi – come Maroni – da tempo chiede un passo indietro del premier, e chi – come gli uomini più vicini a Bossi ha finora sempre sostenuto il governo uscito dalle elezioni del 2008. Di sicuro, l’eventuale accordo sulle pensioni, ragiona un dirigente leghista, può passare solo dalla certezza di garanzie politiche sul futuro. E magari la garanzia, come suggerivano alcuni voci, potrebbe essere il passo indietro di Berlusconi e il passaggio di mano a Gianni Letta.

Ma la faticosa trattativa nel merito, deve trovare una sintesi per forza entro stasera, perché domani il Cavaliere non può presentarsi nel vertice europeo completamente a mani vuote. Il problema è cosa ci chiede l’Unione Europea: privatizzazioni, liberalizzazioni, pareggio di bilancio in Costituzione, riforma della giustizia civile, un mercato del lavoro più flessibile. Van Rompuy, presidente del Consiglio europeo, non parla infatti solo delle pensioni, ma del complesso delle misure che la Banca Centrale Europea chiedeva d’imperio nella famigerata lettera del 5 agosto.

Il testo integrale del decreto:

http://download.repubblica.it/pdf/2011/dl_sviluppo_24102011.pdf?ref=HREA-1


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Il punto di vista del giornale della Confindustria sulla crisi di governo. da Il Sole 24 Ore

Non è impossibile percorrere l’ultimo miglio

di Davide Colombo

Il rischio concreto, stando ai bene informati che hanno seguito da vicino il consiglio dei ministri di ieri sera, è che la montagna finisca per partorire un altro topolino. Com’è accaduto con il decreto di Ferragosto, quando sul dossier pensioni s’era aperto un confronto che pareva promettere interventi a tutto campo – persino la contestatissima, e poi ritirata, norma per azzerare i riscatti degli anni universitari – e che poi si è chiuso su una misura piccolissima, vale a dire l’anticipo dal 2016 al 2014 della lunga scalettatura che porterà al graduale innalzamento a 65 anni dell’età di vecchiaia delle dipendenti del settore privato.

Ieri quando i ministri sono usciti dalla sala del Consiglio il massimo di ipotesi di intervento rimasta sul campo sembrava essere la possibilità di accedere a «quota 97» con i 62 anni di età invece che con i 61 previsti dalla riforma Damiano del 2007. Uno stop che, al massimo, potrebbe riguardare 60-70mila lavoratori, con risparmi che ben difficilmente potrebbero arrivare a 200 milioni l’anno. I ministri della Lega, tra l’altro, non hanno detto che su quest’ipotesi sono pronti a trattare ma che, al massimo, se ne potrebbe parlare. Lasciando comunque fuori dal tavolo qualunque possibilità di intervento sulle anzianità che si possono raggiungere con 40 anni di contributi.

Che cosa ne penserà l’Europa? Le pensioni di anzianità, ha ricordato ieri mattina nel corso di una trasmissione televisiva il presidente dell’Inps, Antonio Mastrapasqua, sono un unicum dell’Italia. Un unicum su cui s’infrange ogni confronto politico, anche quando a riaprirlo è proprio l’Europa, che ci chiede iniziative urgenti per rassicurare i mercati. Eppure non sarebbe impossibile far percorrere questo «ultimo miglio» al cantiere della pensioni. «Io credo che la politica e le parti sociali hanno tutti gli elementi per poter prendere decisioni allineando quello che è un Paese sano e un sistema pensioni sano al resto d’Europa» ha ripetuto ieri il presidente dell’Inps. Ricordando che tutte le riforme che sono state fatte dal ’92 ad oggi, «hanno sempre non solo tenuto saldi i diritti acquisiti ma hanno sempre rispettato una certa gradualità, per far sì che nessuno rimanesse imbrigliato dentro il sistema pensionistico».

Chiudere con le pensioni di anzianità, pur rispettando quello stesso approccio graduale, significa toccare anche i ritiri anticipati di chi ha 40 anni di contributi e oggi può andare in pensione a qualsiasi età. Semplicemente perché questi ultimi rappresentano la maggioranza (due terzi) dei circa 170mila pensionamenti di anzianità che l’Inps autorizza ogni anno.

Quanto si risparmierebbe, con un intervento del genere, dipende dall’età che si sceglie come tetto minimo; sapendo che circa 100mila pensioni da 10-12mila euro l’anno (queste sono le medie Inps) equivalgono a un flusso di spesa di circa 1-1,2 miliardi l’anno.
Per la Lega questo «allineamento possibile e graduale» con l’Europa è, semplicemente, impossibile.

Ci diranno le prossime ore di trattativa se, alla fine, il presidente del Consiglio riuscirà a strappare qualcosa di più del compromesso minimo su «quota 97» anticipata al 2012 con età a 62 anni. Se riuscisse a farlo potrebbe anche aggiungere persino altre correzioni compensative in grado di rendere più appetibile una riforma pensionistica varata nel pieno di una crisi politica ed economica senza precedenti. Le proposte non mancano e qualcuna è pronta già da diversi mesi. Si potrebbe, per esempio, azzerare il limite di tre anni che è oggi necessario per la totalizzazione dei contributi previdenziali; norma fondamentale per un mercato del lavoro sempre più mobile e frammentato.

E lo stesso si potrebbe fare con la valorizzazione di tutti i periodi contributivi che possono essere calcolati tramite una ricongiunzione non onerosa. Micro-interventi, se si vuole, che accostati a una discontinuità vera sulle anzianità potrebbero far percorrere un altro tratto, non certo quello finale, a un sistema previdenziale che resta in ogni caso tra i più stabili dell’Occidente.

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Le “dritte” del giornale della Fiat. da La Stampa

Pensioni, torna lo scalone di Maroni 

di Roberto Giovannini

 

A seconda dei momenti il barometro indica una tendenza verso l’accordo o verso la rottura, eppure i tecnici dei ministeri coinvolti nella partita delle pensioni ipotesi concrete di modifica del sistema delle pensioni di anzianità le hanno già messe nero su bianco. E a sentire i più ottimisti tra i protagonisti del negoziato, il muro frapposto da Umberto Bossi è tutt’altro che insormontabile. Anche perché, a parte l’arma del diktat di Bruxelles, Sarkozy e Merkel, ieri Berlusconi e Tremonti hanno utilizzato un’altra leva per premere sul Carroccio: «nel 2004 – questo è il ragionamento – proprio l’allora ministro del Welfare, il leghista Roberto Maroni, varò lo “scalone” sulle pensioni di anzianità. Se lo riproponiamo adesso, come fate a dire di no?».

 

E in effetti una tra le ipotesi più accreditate per una possibile intesa nell’Esecutivo è proprio una sorta di riproposizione del provvedimento di Bobo Maroni. Con qualche importante modifica, però. Una misura che in pratica non solo innalzerebbe a 62 anni l’età minima per andare in pensione di anzianità, ma imporrebbe anche un minimo di 40 anni di età contributiva. La legge Maroni, oltre a prevedere lo «scalone» (ovvero il passaggio improvviso nella notte tra il 31 dicembre 2007 e il 1 gennaio del 2008 dell’età minima per la pensione anticipata da 57 a 60 anni), comportava l’ulteriore innalzamento del requisito a 61 anni nel 2010 e a 62 nel 2014 (per i lavoratori dipendenti, un anno in più per gli autonomi).

 

Poi, nel 2006, le elezioni vennero vinte dal centrosinistra. E il nuovo ministro del Lavoro Cesare Damiano dopo una lunga trattativa con i sindacati nel 2007 cancellò lo «scalone». Con la riforma Prodi-Damiano per andare in pensione di anzianità serviranno 61 anni nel 2013, anche se con «quota 97» (la quota è la somma tra età anagrafica e contributiva) ci vogliono almeno 36 anni di contributi versati. La possibile mediazione, che potrebbe portare risparmi ingenti, anche di un miliardo di euro l’anno, avrebbe due passaggi dunque.

 

Primo, imporre ai possibili pensionati un’età minima di 62 anni sin dal 2012 (anziché dal 2014). Secondo, stabilire (non subito) un requisito minimo di contribuzione di 40 anni. Oggi chi ha 40 anni di lavoro alle spalle può andare in pensione a qualsiasi età, e dunque anche con meno di 60 anni. E non si tratta di poca gente: circa due terzi delle pensioni di anzianità liquidate dall’Inps riguardano italiani che hanno raggiunto la soglia dei 40 anni di attività lavorativa (magari col recupero degli anni di militare o dell’università). Si tenga conto che dopo le strette varate da Tremonti, chi conquista il diritto alla pensione di anzianità prima di cominciare a incassare l’assegno comunque ha di fronte l’ostacolo della cosiddetta «finestra mobile», ovvero 12 mesi (se dipendente) o 18 (se lavoratore autonomo).

 

Infine, c’è il meccanismo dell’adeguamento dell’età legata all’aspettativa di vita. Bisogna ricordare che se la «mediazione» emersa in serata perdesse il secondo elemento – ovvero il requisito minimo dei 40 anni – gli effetti economici sarebbero soltanto simbolici, visto che in questo caso ci sarebbe solo una modesta accelerazione del requisito anagrafico. Altre ipotesi alternative prevedono sempre per le pensioni di anzianità il passaggio dall’attuale quota 96 a quota 100 entro il 2015. Oppure, si potrebbe lasciare inalterato l’attuale meccanismo, con quota 96, ma inserendo penalizzazioni (ovvero un taglio dell’assegno, variabile ovviamente) per chi va in pensione prima dei 65 anni dell’età dell’assegno di vecchiaia. Berlusconi sembra invece aver praticamente alzato bandiera bianca sul possibile giro di vite sulle pensioni di vecchiaia.

 

Domenica sera il Cavaliere aveva ipotizzato di innalzare l’età minima per la pensione «normale» a 67 anni (oggi è 65) sia pure gradualmente; su questo il niet della Lega si è rivelato insormontabile. Impossibile anche un’accelerazione della parificazione tra uomini e donne: a 65 anni arriveranno soltanto nel 2026, e partendo dal 2014. Niente da fare anche sull’estensione del metodo contributivo pro rata (oggi chi ha cominciato a lavorare prima della riforma Dini ha un metodo di calcolo della pensione più favorevole). E stesso discorso sull’accelerazione delle misure sull’aspettativa di vita, il cui avvio resterà fissato al 2013.


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