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Crollano gli affitti, anche la rendita batte in testa

Se c’è un indicatore certo del calo generalizzato dei redditi, in un paese come l’Italia, questo è certamente il mercato immobiliare. Prima dell’esplosione della crisi (2008) i prezzi erano quasi costantemente in salita, nonostante esistesse già allora un numero di immobili inutilizzati largamente superiore alla domanda. Un assurdo, in regime capitalistico, che si spiega solo con il ruolo distorsivo delle banche. Le quali, pur di non dover iscrivere come “sofferenze” le somme prestate ai costruttori e agli immobiliaristi – ricevendone come garanzia, appunto, gli immobili stessi – contribuivano a gonfiare le valutazioni.

Dal 2010, però, questo mercato ha cominciato a segnare comunque un deciso calo che – dice oggi l’istituto Nomisma – ha raggiunto il -30%. Per la rendita immobiliare si tratta di un tracollo che mal si sposa con la pretesa dei costruttori di “rilanciare la produzione” in un territorio, oltretutto, già pesantemente cementificato.

Secondo l’analisi di Nomisma, una ragione risiede nella difficoltà delle famiglie di ottenere o pagare i mutui (la precarizzazione contrattuale dei lavoratori, naturalmente, rende impossibile ottenere il finanziamento pluriennale necessario per acquistare una casa). Stessa situazione sul mercato degli affitti – che erano cresciuti così tanto, negli anni ’80 e ’90, da rendere più economico il mutuo – che si sono trovati a fare i conti con una domanda molto più debole a casa dei bassi salari.

La conclusione di Luca Dondi, direttore generale di Nomisma, necessariamente ottimistica, registra infatti che “Tra queste due componenti, la perdita di capacità reddituale da parte delle famiglie è stata prevalente, e questo spiega perché i canoni siano diminuiti (…) per i prossimi due-tre anni ci aspettiamo canoni medi invariati, con qualche incremento nei centri universitari e nelle città d’arte”.

Ottimistica perché considera come flussi fissi quelli degli studenti fuori sede (che invece vanno diminuendo con la riduzione delle immatricolazioni, anche qui causata da aumento delle tasse di iscrizione, riduzione dei redditi e svuotamento del titolo di studio) e del turismo internazionale (che per il momento favorisce l’Italia sono in virtù della chiusura di molte altre destinazioni mediterranee, come Egitto, Libano, Tunisia, la stessa Turchia, oltre ovviamente a Libia e Siria).

Stesso discorso anche per gli affitti commerciali, soprattutto negozi, che risentono dei numerosissimi fallimenti in seguito al perdurare della crisi e della sovrabbondanza di locali rispetto al numero degli aspiranti commercianti. Ciò nonostante, le associazioni di categoria rifiutano di guardare in faccia la realtà dell’economia, preferendo pretendere un trattamento fiscale di favore da parte del governo o degli enti locali.

Il presidente di Confedilizia, Giorgio Spaziani Testa, ha infatti diramato una nota in questo senso: “I dati dell’Agenzia delle entrate indicano che il numero di compravendite di negozi in Italia è ancora distante anni luce rispetto alle cifre che caratterizzavano il periodo precedente all’introduzione dell’Imu e, quindi, all’aumento abnorme dell’imposizione fiscale sui locali commerciali. In tutto il territorio nazionale, nel 2015, le transazioni sono state inferiori di circa il 26 per cento rispetto al 2011, ultimo anno di applicazione dell’Ici. Nelle città non capoluogo di provincia, addirittura, le compravendite sono state inferiori di ben il 30 per cento rispetto al 2011. Si tratta di numeri che confermano l’urgenza di un intervento di detassazione per il settore, da attuarsi anzitutto attraverso specifiche misure per gli immobili ad uso non abitativo locati”.

Segue ovviamente la richiesta di introdurre, come per gli affitti abitativi, la cosiddetta “cedolare secca”, con riduzione della tassazione al 21%.

Anche la rendita, dunque, sta pagando dazio alla crisi sistemica. Ma non è davvero il caso di concludere che “mal comune…”. I costruttori, infatti, registrando il sostanziale stallo della cementificazione privata, stanno aumentando la pressione su una classe politica fin troppo condiscendente perché “decida” spese infrastrutturali pubbliche molto consistenti. Olimpiadi in prima fila, ovviamente…

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