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Marchionne ci vuole riconoscenti

 
52% in Chrysler e futuro negli Usa

 

Mega-spot statunitense per Sergio Marchionne; mega-spot elettorale per Barack Obama – che proprio in Ohio si gioca un pezzo di rielezione – ha potuto presentare ai telespettatori la realizzazione di il «miracolo Chrysler. Ieri notte, a Toledo, nell’Ohio, dove si assembla la Jeep Wrangler, si sono scambiati complimenti senza risparmiare retorica. Un marchio decotto è tornato in effetti a produrre, grazie alla cessione praticamente gratuita, un prestito eccezionale vincolato al raggiungimento di obiettivi che la presidenza Usa aveva fissato in modo ferreo e, non da ultimo, la rinuncia del sindacato Uaw a molte delle conquiste residue (dalla sanità alle pensioni, entrambe aziendali; al salario, praticamente dimezzato). È stata anche l’occasione per chiarire i prossimi passaggi sulla proprietà di Chrysler. Fiat ha ormai raggiunto il 52%, grazie all’acquisizione (500 milioni) del 6% in mano al Tesoro Usa. Resta in ballo il 41% tenuto da Veba – una controllata del sindacato Uaw – che ha però necessità di monetizzare per pagare le pensioni dei lavoratori (il sistema Usa è ora davvero quanto di meno «sociale» si sia mai visto). Si sta insomma discutendo sul prezzo: Veba valuta il proprio pacchetto azionario 4,25 miliardi di dollari. Marchionne, invece, in base al prezzo dell’ultimo acquisto, vorrebbe fermarsi a «tre miliardi e rotti». Quel pacchetto però serve anche a lui per rinviare la collocazione di Chrysler in borsa. «Nel medio e nel lungo termine – ha ammesso ieri – la società vale molto di più di quel che vale adesso la posizione di Veba». Soprattutto, a collocazione avvenuta, Veba potrebbe anche vendere ad altri. E «vogliamo evitare che ci si altra gente a tavola; le cene con troppe persone non riescono mai troppo bene».
In Italia, invece, Marchionne non trova soddisfazione. «Qui la gente mi ringrazia per quel che è stato fatto, invece di insultare» Nemmeno il recupero di quote di mercato da parte di Fiat sembra eccitarlo: «tecnicamente è un’inversione di tendenza, ma il mercato non è sano; abbiamo smesso di drogare il sistema con gli incentivi, la domanda è tornata ai livelli naturali e siamo ai livelli del 1996». Ossia 1,7-1,8 milioni di veicoli l’anno, mentre negli stabilimenti italiani – con il «modello Pomigliano» – ha preteso condizioni e ritmi come se se ne potessero vendere il doppio (senza peraltro aver ancora presentato un solo nuovo modello con elevati obiettivi di vendita. Per quanto riguarda invece la fusione tra Fiat e Chrysler «non è una priorità quest’anno, così come il trasferimento del quartier generale» lontano da Torino. Ma non si tratta affatto di un’esclusione definitiva. «La vera questione è lavorare sull’integrazione e la leadership. Dobbiamo trovare una soluzione per la corporate governance che tenga presente che abbiamo una grande entità negli Stati Uniti che produrrà in quel paese tante auto quante la Fiat ne produce nel mondo». Non è un addio, «per ora», che vale anche per Confindustria. «Verso cui non c’è alcuna ostilità», ma «non posso accettare che appartenervi indebolisca la Fiat». Toni da multinazionale con la testa altrove.
da “il manifesto” del 5 giugno 2011

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