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Le molte ombre del “modello tedesco”

A fare la radiografia di un modello che “non si fa più invidiare” è il mensile economico francese “Alternatives Economiques” che dedica diverse pagine a quella che definisce una “evoluzione recente della Germania che non rappresenta più una success story da copiare con urgenza”.

La struttura industriale del capitale tedesco, è quella che si è avvantaggiata di più della caduta del Muro attraverso una strategia della delocalizzazione nei paesi dell’Europa centrale, ragione per cui i prodotti tedeschi costituiscono una parte crescente delle importazioni di questi paesi, questo ha consentito di aumentare il valore aggiunto prodotto sul territorio tedesco ma soprattutto di avere un punto di ricatto formidabile sui lavoratori dei settori più qualificati e sulla contrattazione salariale.

L’impatto sull’occupazione è stato però più basso che in Francia. Fatto 100 come base nel 1991, nel 2008 l’occupazione in Germania è salito a 106,5 mentre in Francia è salito al 118. La disoccupazione infatti è rimasta alta fino al 2005 – al 10,4% – ma è diminuita al 7,3% nel 2008, questo ha consentito di aumentare il tasso di occupazione dal 66 al 71% mentre in Francia – negli stessi tre anni presi in considerazione – è cresciuto solo dal 62 al 65%. Il problema è che in Germania un posto di lavoro su tre non è più a tempo pieno né a tempo indeterminato,ma è un sotto-lavoro e sopratutto sotto pagato a meno di 400 euro mensili senza neanche i contributi sociali. Infatti i working poors (lavoratori a bassissimo salario) sono aumentati di ben 6 punti negli ultimi dieci anni. Secondo Alternatives Economiques, così come nei paesi anglosassoni, quasi 2,5 milioni di lavoratori guadagnano meno di 5 euro all’ora. E i sindacati hanno concesso molto spesso numerose deroghe ai contratti collettivi accettando riduzioni salariali in diverse branche industriali. In sostanza, si sostiene, i famosi salari dei lavoratori tedeschi ristagnano nel confronto di una inflazione che comunque rimane bassissima e i consumi interni anche. Il risultato è che il tasso di disuguaglianza in Germania (tra il 20% della popolazione più ricco e il 20% più povero) è cresciuto notevolmente (+33) tra il 1998 e il 2008.

I due terzi delle esportazioni tedesche sono dirette nei paesi dell’Unione Europea, anche se quelle nell’eurozona sono diminuite dal 50 al 40% compensate però dall’aumento delle esportazioni nei paesi dell’Europa dell’Est che hanno aderito all’Unione Europea ma non ancora all’euro, e i disoccupati dopo tanti anni sono scesi sotto la soglia dei 3 milioni.

Secondo Arnaud Lechevalier che ha curato questa analisi, nel 2011 la domanda interna, per la prima volta dopo più di dieci anni, è diventata il motore della crescita ma se non cresceranno anche i salari il mito del modello tedesco non riuscirà ancora ad essere attrattivo come lo dipingono i suoi esegeti.

Fin qui la ricostruzione di “Alternatives Econonomiques”, una pubblicazione molto interessante ma non estranea ai fasti della difesa dello “statalismo” francese.

Colpisce invece che il modello tedesco, quello che in sostanza sta imponendo il suo ritmo di marcia a tutta l’Unione Europea piegando e devastando tutti i paesi periferici dell’UE (vedi Grecia etc.) per piegarli alle proprie priorità, sia tutt’altro che un modello virtuoso a cui ispirare le eventuali dolorose ristrutturazioni industriali e di bilancio pubblico. Il rischio insomma, è che anche in Italia tornino alla carica quelli che “intendono portare acqua con le orecchie” al capitalismo tedesco garantendogli sia i crediti sul debito pubblico italiano sia regalandogli le quote di mercato e le potenzialità manifatturiere delle imprese nostrane. Non si tratta di nazionalismo, tutt’altro, si tratta di impedire che i lavoratori vengano cooptati dentro un patto sociale con gli “imprenditori” che rischia solo di scimmiottare un modello tedesco che proprio per i lavoratori non è affatto attraente.

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