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Giochi di prestigio sul petrolio

In realtà la scelta dell’Aie è una mossa a suo modo disperata. Le riserve di cui i paesi dispongono sono in genere sufficienti ad affrontare un breve momento di choc, alcuni mesi. Esistono per questo e non possono essere chiaramente sostitutive dell’estrazione quotidiana di petrolio. Il greggio è una risorsa naturale non riproducibile. Esiste in una quantità fissa una volta per tutte, non si rigenera, non può essere fabbricata a partire da altre sostanze. E al momento è difficilmente sostituibile. La stiamo semplicemente consumando a velocità crescente, come un candela. E non ne abbiamo un’altra già pronta.

Anche l’estrazione dal sottosuolo non è modificabile a comando. Quasi tutti i paesi produttori marciano quasi al massimo delle loro capacità e solo l’Arabia Saudita possiede una “capacità di riserva” (spare capacity, possibilità di aumentare la produzione giornaliera). Ma anch’essa insufficiente a coprire il “buco” del petrolio libico; che da tre mesi non arriva ovviamente più sul mercato.

La mossa dell’Aie copre per due mesi circa questa mancanza. Poi, se il conflitto non sarà terminato e la produzione nella Sirte non sarà ripresa (e tutti i tecnici dicono che nel migliore dei casi non se ne parla prima della fine dell’anno, perché bisogna riportare lì i tecnici fuggiti nei primi giorni dei bombardamenti, verificare i danni agli impianti, ripararli, rimettere a regime il pompaggio, far arrivare le petroliere, ecc) a settembre la situazione sarà identica all’altroieri. Per l’estate (la driving season degli americani) il prezzo della benzina sarà più basso. Godiamocela, se volete essere spensierati. Ma su questo problema l’umanità tutta viene rimandata a settembre. Ma con questo livello di preparazione, la bocciatura appare dietro l’angolo.

 

Via proproniamo gli articoli de IlSole24 Ore di oggi per dare un’occhiata ai dati, ma anche rendervi conto dei danni che l’ideologia provoca.

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L’Occidente sblocca le riserve. Sessanta milioni di barili di greggio in un mese. Il prezzo del Brent crolla del 6,1%

di Roberto Bongiorni
Sessanta milioni di barili, in un mese. In altre parole 2 milioni di barili al giorno per 30 giorni, con un obiettivo chiaro: compensare la perdita del greggio libico, fronteggiare l’aumento della domanda mondiale, raffreddare il prezzo del barile mantenendo gli speculatori lontani dai mercati in un periodo in cui la crescita mondiale è ancora vulnerabile.

Da quando è nata, nel 1974, l’Agenzia internazionale dell’energia (Aie) non ha mai rilasciato un simile quantitativo dalle sue riserve di emergenza. La decisione, annunciata ieri, era nell’aria. Non si immaginava tuttavia che si arrivasse a queste quantità e in tempi così rapidi. Dei 60 milioni di barili 30 saranno riversate sui mercati dalle riserve strategiche degli Stati Uniti – che ammontano complessivamente a 727 milioni di barili – il resto in proporzione dai 28 Paesi consumatori membri dell’Aie. Quindi Italia inclusa, che farà la sua parte con 82mila barili al giorno, circa il 4% del totale.

Immediata la reazione sui mercati dei futures del greggio. I contratti sulla qualità Brent, il greggio di riferimento scambiato in Europa, hanno accusato un crollo perdendo più di 8 dollari al barile e chiudendo poi in serata a 107, 26 dollari (-6,1%). Un valore inferiore alle quotazioni del greggio prima della rivolta libica. A New York i futures sul Wti, hanno perso 4,3 dollari chiudendo a 91,02 , il minimo dall’otto febbraio. I futures sulla benzina sono scesi ai minimi da tre mesi.

L’Aie ha fatto sapere che la decisione è stata presa per fronteggiare un’interruzione dell’offerta – quella libica – che ha già sottratto ai mercati 132 milioni di barili e rischiava di protrarsi danneggiando la ripresa della crescita mondiale in un momento in cui la domanda è alta. Il terzo trimestre dell’anno segna la stagione della benzina, quando i consumi di carburante toccano i picchi, soprattutto negli Usa. Ma il greggio migliore per essere trasformato in benzina è il sweet light, a basso contenuto di zolfo. E buona parte di quello libico faceva parte di questa qualità molto richiesta. Che caratterizza solo in parte le scorte strategiche Usa. È ormai opinione condivisa tra gli analisti che, comunque vada il conflitto, è difficile ipotizzare la ripresa dell’export libico prima della fine dell’anno.

Ma c’è di più. Il legame tra la conclusione dell’ultimo vertice Opec e la decisione di ieri è evidente. Lo scorso 8 giungo a Vienna in un difficilissimo vertice, conclusosi con un inusuale mancato accordo, i sauditi non erano riusciti a imporre la decisione di alzare la produzione di 1,5 milioni di barili al giorno. I falchi, guidati da Iran e Venezuela avevano avuto la meglio. I Paesi consumatori, Stati Uniti in testa, avevano espresso la loro delusione per l’esito del vertice, sottolineando i loro timori per la ripresa dell’economia. Irritati con i falchi dell’Opec, i sauditi aveva assicurato i mercati, impegnandosi unilateralmente ad attingere dalla loro capacità di riserva almeno un milione di barili in più. Greggio comunque pesante.

Alcuni Paesi membri dell’Opec hanno espresso ieri il proprio disappunto. «Non so come giustificare una simile interferenza sui mercati», ha dichiarato un delegato iraniano dell’Opec. «Non c’è ragione per farlo. Il barile non si trova a 150 dollari, e non c’è carenza di offerta sui mercati», gli hanno fatto eco due altri delegati dei Paesi del Golfo. Un disappunto condiviso da altri Paesi Opec, preoccupati che i prezzi scendano a valori ai loro occhi indesiderabili. Un timore che potrebbe essere fondato. La banca d’affari Goldman Sachs ha infatti stimato che il rilascio delle scorte potrebbe abbassare di 12 dollari le sue precedenti stime sui prezzi del Brent nei prossimi tre mesi. L’Aie e gli Stati Uniti non hanno invece escluso di rilasciare altre scorte strategiche se necessario.

Scottata dal primo grande shock petrolifero del 1973, i Paesi consumatori crearono l’anno dopo l’Aie, con il suo sistema delle riserve strategiche, con cui gli attuali 27 Paesi membri si impegnano ad avere a disposizione scorte petrolifere equivalenti ad almeno 90 giorni di consumi calcolati sulla media dell’anno precedente. In 37 anni, tuttavia, l’Aie ha attinto dalle sue scorte solo tre volte volte (inclusa quella di ieri): la prima durante la guerra del Golfo, nel 1991, e poi durante l’urgano Katrina, nel 2005.

La decisione dell’Amministrazione Obama di accedere alle riserve strategiche ha sollevato subito polemiche tra esponenti repubblicani e dell’industria petrolifera Usa perché la manovra avrebbe effetti di breve durata (il totale rilasciato corrisponde a meno di tre mesi di export libico) ed è stata comunque adottata in un momento in cui gli stock americani di benzina si trovano a livelli non preoccupanti. Finora.

 

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Uno schiaffo all’Opec nella guerra dell’oro nero

 

È suggestivo pensare che lo schiaffo dell’Occidente all’Opec, il ricorso alle riserve petrolifere strategiche, rientri in una catena di eventi straordinari cominciati il 17 dicembre scorso, quando in un oscuro villaggio della Tunisia profonda un giovane disoccupato di 25 anni, Mohammed Bouazizi, si diede fuoco protestando contro il regime di Ben Alì.

Non c’è dubbio che la primavera araba abbia assestato un colpo micidiale al vecchio ordine mediorientale, dalle coste del Maghreb al Golfo del petrolio, che sta avendo riflessi inaspettati sugli assetti geopolitici internazionali e ora anche della sicurezza energetica. Caduti gli autocrati di Tunisia ed Egitto, la rivolta si è propagata alla Libia, poi in Siria, nello Yemen e in Barhein, dove le truppe saudite hanno dato una mano alla repressione degli insorti sciiti.

L’intervento militare in Libia però è stato decisivo e sta mettendo in crisi i rapporti tra l’Opec e i Paesi consumatori ma anche le relazioni tra gli stessi membri del Cartello. Perché se è vero che lo shock libico non è paragonabile a quelli degli anni Settanta o ai conflitti nel Golfo le sue conseguenze potrebbero essere altrettanto importanti.

Le guerre si sa come cominciano ma non come finiscono. Già quella libica ha avuto degli effetti negativi con i prezzi dell’oro nero gonfiati oltremisura, se poi si prolungasse le ricadute sulla ripresa mondiale diventeranno ancora più consistenti. La Libia valeva 1,6 milioni di barili al giorno e non sono stati rimpiazzati dall’Opec con una produzione della stessa qualità, nonostante questa fosse l’intenzione del Paese-guida, l’Arabia Saudita.

La maggioranza dei Paesi produttori di petrolio, messi sotto pressione anche dai loro alleati nella regione, erano contrari all’intervento in Libia avviato da Nicolas Sarkozy e poi sanzionato dalla risoluzione 1973 dell’Onu. Dopo il conflitto in Iraq, con le sue devastanti conseguenze, nessuno, anche se non vien detto apertamente, vuole più vedere aerei ed eserciti occidentali da queste parti. Per far capire che possono contrastare i piani della Nato hanno quindi usato l’arma del petrolio, la più efficace che possono agitare, rifiutandosi di aumentare la produzione e stabilizzare i prezzi sui mercati.

Ognuno fa le guerre con le armi che ha e i regimi mediorientali, con qualche eccezione come il Qatar di al-Jazeera, difendono dittature e autocrazie dalle nostre ingerenze umanitarie e democratiche. La primavera araba si tinge di oro nero, come era forse prevedibile quando si è cominciato a bombardare Gheddafi per proteggere i ribelli di Bengasi, poi lanciati all’effimera conquista dei terminali petroliferi lungo l’arida via Balbia.

Il rapporto dei servizi francesi in visita a Bengasi e a Tripoli, redatto tra gli altri dall’ex capo del controspionaggio Yves Bonnet, è chiaro. La rivolta libica si legge, anche con una certa sorpresa, «non è né democratica né spontanea». Tra le motivazioni dell’intervento francese si riconoscono due punti: le ricchezze energetiche e la frustrazione della Francia di non aver saputo prevedere le rivolte arabe.

Oggi si dà uno schiaffo all’Opec, domani però bisognerà trovare una soluzione alla Libia: un’escalation non conviene forse neppure alla causa dei popoli arabi.

 

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Mossa inattesa ma positiva

di Davide Tabarelli

 

La decisione di ricorrere alle scorte strategiche da parte dell’Aie è inaspettata, ma positiva per il mercato petrolifero, che ha un disperato bisogno di tornare a quei fondamentali che giustificherebbero prezzi ben più bassi dei 100 dollari per barile.

È la terza volta che si ricorre alle scorte strategiche. Nelle prime due occasioni – nel 1991 e nel 2005 – i prezzi, invece di scendere, salirono, in quanto la decisione venne interpretata solo come conferma della gravità della situazione. Oggi invece i prezzi calano, aiutati dal fatto che i fondamentali del mercato sono più favorevoli. L’ammanco del greggio libico, pari a 1,5 milioni di barili giorno, dura ormai dallo scorso 21 febbraio, ma l’Arabia Saudita ha già in parte compensato, annunciando lo scorso 11 giugno che aumenterà ancora.

Più importante, però, è l’alto livello delle scorte in tutti i Paesi dell’Aie, e in particolare negli Usa che, non a caso, più si sono dati da fare nel sostenere la decisione e che si farà più carico nella riduzione delle scorte. Sono sempre gli Usa del resto che hanno maggiormente bisogno di ridurre i prezzi del petrolio. La loro economia dà segnali preoccupanti di rallentamento e un calo dei prezzi della benzina dagli attuali 70 centesimi di euro per litro (contro i nostri 1,5 euro) verso 50 centesimi, aiuterebbe i consumi interni e limiterebbe il disavanzo sulle importazioni.

Ci sono voluti più di 35 anni per fare funzionare un po’ decentemente l’unico strumento che l’Aie ha a disposizione per cercare di stabilizzare i prezzi. Quando fu creata nel novembre del 1974, su iniziativa soprattutto del presidente americano Richard Nixon e del suo segretario Henry Kissinger, le intenzioni erano più ambiziose, per cercare di rispondere ai Paesi Opec. Questi, un anno prima, avevano fatto salire il prezzo da 3 a 12 dollari per barile e avevano nazionalizzato gran parte degli impianti delle compagnie petrolifere. Il dialogo produttori-consumatori doveva essere la soluzione dei problemi, ma tutto si limitò alle scorte, utilizzate finora molto raramente.

Allora nessuno avrebbe pensato che per la terza volta sarebbero state impiegate nel 2011, con prezzi del petrolio oltre i 100 dollari. La convinzione era che il petrolio da lì a 40 anni sarebbe diventato marginale e che di scorte non ce ne sarebbe stato più bisogno. Le cose sono andate diversamente e il petrolio continua a contare per il 33% dei consumi globali di energia, contro il 35% di allora, ma i volumi sono passati da 54 a 87 milioni di barili al giorno. Il rischio è che anche oggi ci si possa illudere che in futuro si possa fare a meno del petrolio e che pertanto non servano quei pochi strumenti che abbiamo a disposizione noi consumatori per cercare di stabilizzare i prezzi.

In realtà abbiamo bisogno di tutto, a cominciare dalle scorte, senza dimenticare quel dialogo che, mai come oggi, è stato così freddo, visto quello che stiamo proprio facendo in Libia.

 

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