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Crisi italiana: i consiglieri del capitale in difficoltà

 

Un patto nell’interesse nazionale

di Stefano Folli

 

Come va inteso il richiamo alla «coesione nazionale», tanto più impellente quanto più drammatica è la condizione dell’Italia sui mercati finanziari? Nell’appello del presidente della Repubblica c’è un senso morale, civile, prima ancora che politico. Tuttavia in concreto la «coesione nazionale» può essere declinata in varie forme, tutte preferibili allo stato di confusione in cui si è svolto il dibattito pubblico fino all’altro giorno, quando già era cominciata la tempesta perfetta sulle Borse.

È bene essere chiari. Nella sua accezione più vera e convincente «coesione nazionale» vuol dire governo di salute pubblica. O di unità repubblicana. Dimissioni dell’esecutivo in carica a mercati chiusi, rapido ricambio dei ministri, nuovi volti rappresentativi di un grande sforzo collettivo, immediato giuramento e presentazione in Parlamento a raccogliere il voto di tutto l’emiciclo, o almeno della sua stragrande maggioranza.

È uno scenario suggestivo, il solo forse che darebbe all’interno e all’estero il segno della riscossa, visto che un governo siffatto avrebbe la missione storica di metter subito mano a misure drastiche, ponendo fine ad anni di rinvii e traccheggiamenti. Ma siamo fuori della realtà. Non c’è alcun governo di unità nazionale all’orizzonte, almeno a breve termine. Al netto della propaganda, le nostre forze politiche non sono in grado oggi di fare questo salto estremo. Coesione diventa allora sinonimo di responsabilità nazionale. L’obiettivo minimo dovrebbe essere a portata di mano: approvare la manovra economica in pochi, pochissimi giorni. Se possibile, correggendone alcune incongruenze, ma senza slittare nemmeno di un’ora. Un patto fra maggioranza e opposizione alla luce del sole, o quasi, in nome dell’interesse generale. Allo stato delle cose, è un passo irrinunciabile.

Eppure, dopo il collasso di ieri, la coesione nazionale avrebbe bisogno di ben altro. Per esempio di parole di verità adeguate alla serietà dell’ora. C’è da domandarsi, a tale proposito, cosa aspetta il presidente del Consiglio a rivolgersi al Paese. Di Berlusconi abbiamo solo un comunicato ottimistico diffuso ieri sera da Arcore, in cui si dichiara d’accordo con Napolitano. Meglio di niente, ma forse non basta. Il premier dovrebbe sentire la necessità di parlare agli italiani con una certa solennità, cogliendo le preoccupazioni diffuse. Spetta a lui e a nessun altro spiegare cosa sta succedendo e indicare una prospettiva. Spetta a lui sollecitare la coesione della sua maggioranza e chiedere all’opposizione una forma di coinvolgimento.

Sono questi i momenti in cui una leadership ha il dovere di mostrarsi, se ancora esiste. E i famosi mercati vogliono proprio questo: una leadership forte che sappia cancellare per un momento l’immagine di un governo indebolito, incrinato anche da incredibili vicende giudiziarie. Una voce abbastanza credibile da interpretare un Paese unito. Invece c’è stato un silenzio durato troppo a lungo, spiegato domenica con l’argomento che «il premier non vuole alimentare polemiche sul Lodo Mondadori». Lodo Mondadori? Ma in questi giorni il presidente del Consiglio aveva e ha un solo tema su cui esprimersi e non è certo il caso Mondadori.

Tanto più dopo la telefonata del cancelliere Angela Merkel. Fatto inusuale che non può essere archiviato solo come un elogio al Governo italiano per il profilo della manovra. La telefonata è anche un monito, un richiamo a fare presto, un invito a mandare segnali tempestivi. È sorprendente, ma non troppo, che finora le parole politicamente più impegnative; le parole che si rivolgono all’esecutivo, sì, ma in fondo all’intero Parlamento, siano venute dal cancelliere della Germania e non da un esponente della nostra classe politica. Sorprendente e inquietante. Da un lato, la Merkel che vigila sulla nostra politica economica. Dall’altro, i nostri impacci e i diversivi. Come Calderoli che annuncia proprio adesso l’apertura a Milano degli uffici di rappresentanza di tre ministeri, compreso quello di Tremonti. O come Bossi che afferma: «La Lega non ha lasciato il Governo per non spaventare i mercati» (e si è visto ieri). Ma l’opposizione non è da meno. Ancora sabato Bersani accennava alla proposta del Pd: trasformare il decreto in disegno di legge e approvarlo «entro settembre». Entro settembre? Per quella data la speculazione avrà finito il pasto, se i segnali forti che la classe politica sa trasmettere sono questi.

A sua volta Casini ha evocato il toccasana delle riforme. Che in questo contesto ha poco senso. Le riforme andavano fatte dieci anni fa. Oggi, contro la destabilizzazione, ci vuol altro che una generica promessa di mettere in cantiere un programma riformatore. Quello dovrebbe essere la normalità dell’agenda politica. Ma adesso siamo siamo nell’emergenza. In altre parole, la «coesione nazionale» può essere intesa in molti modi, ma soprattutto deve essere una cosa seria. Ormai l’Italia non può permettersi più di scherzare.

 

Prodi: «È l’ora di unire il Paese, serve uno sforzo comune contro la speculazione»

di Carlo Marroni

 

«Va lanciato immediatamente il messaggio che c’è un Paese unito, capace di fare sacrifici e di costruire compatto il proprio futuro».
Nel giorno più nero per l’Italia sui mercati finanziari, Romano Prodi sollecita una prova di compattezza per superare questa crisi e respingere l’attacco speculativo internazionale a cui è sottoposta l’Italia. Per l’ex presidente del Consiglio «non ci sono alternative a questo approccio. Deve emergere subito un messaggio di stabilità, di compattezza, di fiducia, condiviso da maggioranza e opposizione, assieme a tutte le istituzioni. Questo fa un Paese che festeggia i 150 anni di unità e continua insieme a costruirsi il domani».

Professor Prodi la situazione è davvero difficile.
Sono fortemente preoccupato per quello che sta accadendo. E lo sono a maggior ragione alla luce di quanto avviene negli Stati Uniti, dove i conti pubblici sono peggiori dei nostri e la situazione politica interna non è certo più coesa della nostra. Eppure non si pensa altro che ad attaccare l’Europa.

L’Italia è il Paese nel mirino più di altri?
Dopo Irlanda, Grecia, Portogallo e Spagna adesso tocca a noi subire gli attacchi, anche se ora il fenomeno sta interessando pure la Francia, come dimostra lo scossone avuto dal loro spread. Ma questo non può certo consolarci.

Che cosa sta innescando questo fortissimo e pare inarrestabile movimento speculativo?
L’Italia non brilla per il proprio rigore, ma la nostra economia non è certo al collasso, anzi, le strutture produttive sono generalmente sane e le banche sono relativamente più solide che negli altri Paesi. Eppure assistiamo a un attacco feroce, sia in Borsa che sui titoli di Stato, con lo spread verso i titoli tedeschi tornato addirittura sopra 300 punti base. Parliamoci chiaro: se non si pone rimedio si va diritti verso un baratro. Occorre una risposta coesa, ripeto, coesa, di tutto il Paese.

La manovra varata dal Governo pare sia passata inosservata.

Serve una strategia di uscita. Da un lato vanno rafforzati i contenuti della legge finanziaria: è certamente un punto debole il rinvio del cuore dei provvedimenti al 2013-2014, e dall’altro va seguita una precisa strategia che possa influire sui mercati finanziari.

Che guardano ai segnali, ai messaggi, alle aspettative…
È anche e soprattutto per quello che ritengo sia necessario rendere la manovra accettabile all’opposizione.

Sembra facile. Ma come si può fare, visto il contesto della politica italiana che lei conosce molto bene?
Vista l’urgenza, è possibile attraverso l’intesa rapida su alcuni emendamenti. Così si può portare subito la manovra in Parlamento e approvarla in tempi stretti, come giustamente sollecitato anche dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Questo fa una politica seria.

Che cosa dovrebbe cambiare l’impianto approvato dal Governo?
La situazione è grave, lo sappiamo tutti. E quindi serve uno sforzo straordinario da parte delle classi a reddito più elevato.

A cui si pensa di ridurre gradualmente l’aliquota massima…
A me pare un follia. Su questo punto bisogna essere chiari.

Concorderà che è difficile trovare risorse in questo momento.

Certo. Proprio per questo va varata una vera lotta all’evasione fiscale, che è enorme. Eppoi bisogna agire sulla spesa pubblica.

Anche questo sembra sia al centro dell’impianto della manovra, almeno in alcune sue parti.
Io penso a un politica strutturale di spending review, un po’ sulla falsariga di quello che fece la Commissione Giarda. La spesa pubblica nell’ultimo decennio è scappata di mano, e bisogna metterci sul serio rimedio. È noto a pochi che in dieci anni la spesa pubblica complessiva al netto degli interessi è cresciuta di oltre il 50%, passando da 479 miliardi del 2000 a 723 del 2010! La questione centrale è che i mercati finanziari internazionali devono avere la rassicurazione che questi fenomeni in futuro non accadano più.

Una misura a lungo termine, tuttavia…
Sì, ma con un messaggio che ha presa nell’immediato. E che avrebbe un forte impatto emotivo. Come lo avrebbe una seria riorganizzazione delle tasse locali dopo lo smantellamento dell’Ici. Ovunque il federalismo fiscale si basa sulla tassazione degli immobili. È chiaro che parte delle risorse liberate dovrebbero essere indirizzate alla riduzione dei costi indiretti delle ore lavorate, in modo da aiutare il rilancio dell’economia.

Sempre manovre strutturali.
Da attuare attraverso un’immediata riunione tra Governo, opposizione e Banca d’Italia in modo da dare la garanzia che tutto il Paese è pronto a fare sacrifici, affrettare il risanamento e sostenere l’economia.

La forza del messaggio, come accaduto in passato, quando a metà degli anni 90 l’Italia subì attacchi per certi versi analoghi.
Non mi stancherò di ripetere che in questo momento il messaggio di unità, sostanziale, è importantissimo, come è decisivo allontanare l’idea che si vogliano procrastinare le cure necessarie. Come facemmo in quel momento difficile del ’96, quando il mio Governo varò la tassa per l’Europa.

Lì c’era un obiettivo ben definito e decisamente “alto”.
Sì, certamente si trattava di una scelta grande e giusta. Ma il fattore vincente fu il metodo: mettemmo di fronte al Paese dei sacrifici a fronte di risultati chiari. E come sanno tutti, i soldi versati per entrare nell’euro furono restituiti.

L’estate 2011 ricorda l’autunno di quindici anni fa?
Questi problemi hanno tutti la stessa necessità, quella di essere affrontati con uno sforzo comune davvero condiviso. Se questo sarà fatto immediatamente, allora lo spread tra i nostri BTp e i Bund tedeschi si richiuderà velocemente.

 

 

Fiducia e credibilità, capitale da ricostruire

di Luigi Guiso e Luigi Zingales

 

Quando nel 1946 Alcide De Gasperi parlò alla Conferenza di pace di Parigi non aveva dalla sua parte solo la cortesia dei vincitori, ma anche la credibilità di un uomo che aveva conosciuto la galera per la sua opposizione alla tirannide fascista.

Il Paese era prostrato, ma la credibilità di cui gran parte della nostra classe politica di allora godeva permise all’Italia di essere accettata nel consesso delle nazioni occidentali, gettando le basi del miracolo economico. Nonostante il benessere raggiunto, oggi il nostro Paese agli occhi della comunità internazionale manca proprio di credibilità. La scarsità di questa risorsa, consolidatasi nei decenni, è senza dubbio diventata una caratteristica di fondo dell’Italia.

Secondo i dati dell’Eurobarometro, tra i manager dei principali Paesi europei gli italiani sono quelli che godono della minor fiducia da parte dei loro colleghi. Tra i popoli della vecchia Europa gli italiani sono secondi solo ai greci per il grado di sfiducia che generano. Ma questo difetto di credibilità oggi è amplificato drammaticamente dal quadro politico. È un dato che prende corpo nell’opinione pubblica internazionale e riguarda direttamente l’affidabilità della classe politica che, dal presidente del Consiglio in giù, si trova al centro di indagini giudiziarie con ministri e sottosegretari costretti alle dimissioni.

Questa mancanza di credibilità e fiducia non è solo un problema politico, ma anche economico. I Paesi che non generano fiducia sono in grado di esportare meno, attraggono meno investimenti esteri e sono meno capaci di sviluppare grandi imprese.

In un mondo in cui la ricchezza è sempre più composta da beni intangibili (brevetti, segreti industriali, informazioni privilegiate) e dove la complessità accresce la necessità di ricorrere alla delega, la fiducia diventa sempre più una precondizione per fare affari. Nel comprare una valvola per un impianto nucleare, non posso permettermi il rischio che non sia affidabile. Il minimo dubbio sulla controparte mi induce a scegliere un altro fornitore.

Nel condividere i miei segreti industriali con un partner, non posso permettermi un dubbio sulla sua onestà. Appena li nutro, la partnership è finita. Nell’effettuare in tempi brevi grandi transazioni, non posso dubitare dell’onestà del venditore. Nella primavera del 2008 Warren Buffett decise di non investire in Lehman Brothers quando scoprì che Dick Fuld, l’amministratore delegato della società, non era stato completamente trasparente nella trattativa. Buffett giudicò (correttamente) che chi non è onesto nel poco a maggior ragione non è onesto nel molto.

La fiducia è particolarmente importante in tutte quelle situazioni in cui il beneficio derivante dal fidarsi a ragione di una controparte dubbia è limitato, ma la perdita causata dal fidarsi erroneamente è enorme, come nel caso di un impianto nucleare. Per questo la fiducia è particolarmente importante nel mercato del credito. La perdita che posso subire nel prestare a un debitore disonesto è di gran lunga maggiore del beneficio che posso trarre dal prestare ad un prenditore onesto. Per questo il mercato del credito è particolarmente sensibile alle crisi di fiducia. Alcuni lo chiamano panico, ma non c’è nulla di irrazionale nel maturare convinzioni da piccoli segnali, soprattutto quando il costo di non farlo può essere elevatissimo.

Venerdì scorso i titoli di Stato italiani sono stati colpiti da una di queste crisi di fiducia. Ieri la sfiducia è stata confermata ed estesa. Né panico, né tantomeno cospirazione internazionale contro l’Italia, ma solo ordinaria interpretazione delle notizie. Per la consuetudine con cui gli analisti americani guardano i fatti, se l’ex braccio destro del ministro Tremonti è accusato di corruzione e il ministro è ospite a casa sua, l’intero Paese e i suoi conti sono messi in dubbio. L’Italia non è la Grecia, da tutti i punti di vista. Ma il dato politico influenza il giudizio esterno. Perché, si domandano gli osservatori, l’Italia dovrebbe essere diversa? Realisticamente sono questi i pensieri che serpeggiano tra i detentori del nostro debito pubblico. In queste condizioni sorprende solo che il crollo sia stato tutto sommato limitato.

La trasparenza non paga solo in termini di credibilità, ma anche di solidarietà. I tedeschi sono molto più disponibili ad aiutare l’Irlanda di quanto lo siano ad aiutare la Grecia, perché la Grecia ha mentito. L’unica attenuante è che le colpe appartengono al Governo precedente e Papandreou cerca di accreditarsi ai partner europei, come fece De Gasperi, come il volto della nuova Grecia. Abbiamo anche noi bisogno di credibilità, di persone credibili. Non è importante se abbiamo un Governo di destra o di sinistra. L’attuale destra e l’attuale sinistra soffrono, purtroppo, dello stesso deficit di credibilità nei confronti degli italiani e della comunità internazionale. Bisogna ricostruire un capitale di credibilità e fiducia, come fecero i nostri padri costituenti dopo l’esperienza del fascismo. Nuove basi perché il mondo creda che il nostro debito venga ripagato e gli italiani credano che questo verrà fatto in modo equo. Senza questa credibilità e fiducia l’Italia non può sopravvivere in Europa.

 

 

L’Ue litiga sulla speculazione
Il giallo dei titoli in mano Pechino

Prime incertezze sul debito di Paesi solidi come Francia, Olanda e Austria. Il nodo delle regole comuni

Massimo Mucchetti

MILANO – Il voto di sfiducia, che a dicembre Silvio Berlusconi era riuscito in qualche modo a scansare in Parlamento, viene ora riproposto dai mercati finanziari, in vista degli «stress test» sulle banche europee e dell’asta di oggi dei Bot (6,7 miliardi) e di giovedì dei Btp (3-5 miliardi). Da ieri il tasso d’interesse sui Btp a 10 anni costa il 3,05 per cento in più rispetto ai Bund tedeschi di ugual durata. Mai nell’età dell’euro il differenziale con l’economia più solida d’Europa era stato così alto. Se il dato si consolida, il costo medio del debito pubblico italiano aumenterà sensibilmente, la manovra volta al pareggio del bilancio dello Stato nel 2014 si rivelerà insufficiente e i conti delle banche dovranno registrare pesanti minusvalenze sui vecchi titoli in portafoglio che si troverebbero a pagare interessi più bassi: abbastanza per vanificare le operazioni di rafforzamento patrimoniale fatte negli ultimi due anni e per indebolire la disponibilità di credito all’economia reale.

IMPERATIVO GRECIA – Simili esiti non sono ancora scontati, ma quel che emerge con chiarezza è che arruolare nella maggioranza tre deputati ex finiani non è un argomento che accrediti il governo presso quanti all’estero detengono, secondo le statistiche del Fondo monetario internazionale, il 44% dei titoli di Stato italiani. Anzi, certe furbizie rischiano di aggravare la crisi di credibilità di un Paese che pure, a fronte dei 1.900 miliardi di debito pubblico, per l’83% statale, può vantare una ricchezza privata in immobili e strumenti finanziari pari a circa 8.000 miliardi. La gestione delle aste delle obbligazioni del Tesoro, fatta con grande professionalità dal ministero, e lo stesso rigore contabile del titolare dell’Economia, Giulio Tremonti, non bastano a coprire il vuoto politico di un esecutivo che invoca i global legal standard , sventola la bandiera del patriottismo economico e poi, di fronte a delle scelte concrete, si defila. L’imperativo categorico è far capire al mondo che la Grecia verrà salvata e nessun Paese dell’euro sarà abbandonato. Ma, ammesso che si vada d’accordo su come distribuire gli oneri, resta da definire una direzione efficace e tempestiva del Fondo salva Stati. Diversamente, l’Eurozona patirà un handicap grave rispetto ai concorrenti con una moneta e un governo. E le prime incertezze sul debito di Paesi solidi come Francia, Olanda e Austria suonano un altro campanello d’allarme.

LEGITTIMI TIMORI E SUDDITANZE – Più in generale, ci si chiede se, guardando oltre l’emergenza, abbia ancora senso lasciare immutato il mercato finanziario costruito negli anni Novanta seguendo la cultura che ha portato al disastro. In Europa, i deputati popolari, socialisti e verdi vorrebbero proibire la speculazione sui credit default swaps sui titoli di Stato, che moltiplicano i rischi anziché assicurarli come dovrebbero in teoria fare. I governi di Francia e Germania vorrebbero confermare questo orientamento, ma i governi inglese, spagnolo, svedese e altri non ci stanno. La presidenza polacca sembra filoinglese.
Ma fin dove arriva la legittima preoccupazione per la liquidità dei mercati, che già una volta era venuta meno nonostante la deregulation , e da dove inizia la sudditanza di alcuni governi e alcune economie all’industria finanziaria? In questo contrasto tra Parlamento europeo e governi nazionali l’Italia da che parte sta? Che cosa pensiamo della Tobin tax e degli altri strumenti buoni per raffreddare la pericolosa frenesia della finanza? Al governo basta l’informativa sulle posizioni corte allo scoperto, imposta ieri dalla Consob, buona ultima rispetto alle consorelle europee e tuttavia esempio di attivismo rispetto all’esecutivo? Silenzio. Si riparla della norma salva-Fininvest per rilanciare le imprese.

I FATTI E LE ANALISI – Ma le insufficienze non sono solo italiane. Tolto ogni vincolo alla libera circolazione dei capitali, gli Stati sanno quanto del loro debito sta fuori dai confini, ma non quanto sia detenuto da residenti e quanto da non residenti nell’Eurozona, quanto da investitori stabili e quanto da hedge fund e affini. Da Pechino si dice che la Cina detenga il 13-14% del debito pubblico italiano, ma il Tesoro non ha gli strumenti per sapere se si tratta dell’intero debito pubblico o dei soli Btp. Detto questo, c’è qualcuno che parla con i cinesi per vedere se si può fare qualcosa?
Certo, si potrà anche osservare che l’economia reale non ha più problemi di sei mesi fa. E magari citare il Fiscal Monitor del Fondo monetario di aprile, secondo il quale l’Italia è uno dei Paesi che ha meno bisogno di interventi sulla finanza pubblica per stabilizzare il proprio debito nel lungo termine. Ma i fatti pesano più delle analisi. E i fatti dicono che negli ultimi giorni a vendere sono stati investitori che i titoli di Stato li possedevano. Un segno pesante, che va al di là delle classiche vendite allo scoperto delle banche che si preparano alle aste di Bot e Btp. Il Belpaese non è il Giappone, dove la bassa crescita non ha inciso sui tassi del più grande debito pubblico del mondo, perché è quasi tutto detenuto da giapponesi. Ma governo e sistema finanziario devono fare quadrato.

 

 

 

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1 Commento


  • Spartaco cincinnato passannante

    Io non riesco a capire una cosa: se io, che sono uno qualunque, sapevo già nel 2007 come sarebbero andate le cose dal punto di vista della crisi globale, come mai gente come Prodi cade ORA dalle nuvole. Dove vivono questi qui? Cosa leggono?

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