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L’incubo americano di una nuova recessione


Le previsioni per l’economia sono straordinariamente cupe. Già in passato siamo riusciti a tirarci fuori dalla recessione ma a fare la differenza questa volta è la profonda disfunzione segnata dal Tea-Party che affligge la nostra classe politica. Come ho scritto recentemente, se nel futuro prossimo l’economia subirà una contrazione, si tratterà di una recessione provocata dall’«era di austerità» abbracciata da Washington e dalle politiche di contrazione che ha introdotto.
E questo scenario oggi appare più probabile. Soltanto pochi mesi fa c’erano davvero pochi analisti che prevedevano che l’economia americana sarebbe davvero potuta scivolare in un altro periodo di sfibrante recessione. L’opinione generale era che sebbene stessimo recuperando troppo lentamente rispetto alla profondità del crollo, tuttavia ci trovavamo nella fase di rimbalzo. Ma quest’idea è cambiata. L’ex segretario del tesoro Larry Summers ha calcolato che esiste un 33% di possibilità che l’economia cada di nuovo nella recessione, che si verifichi cioè la spaventosa «doppia caduta». Altri economisti considerano quest’ipotesi un po’ meno probabile, ma i ricercatori della Federal Reserve ci dicono che, a partire dalla Seconda guerra mondiale, la metà delle volte che l’economia è cresciuta così lentamente come ha fatto nel primo semestre di quest’anno, nel giro di 12 mesi è seguita una recessione.
Per la maggioranza degli americani la fine – quella decretata ufficialmente – dell’ultima recessione ha rappresentato una pura astrazione, perché non ha rispecchiato in alcun modo la profonda sofferenza economica che decine di milioni di lavoratori hanno continuato a patire. Dal 2009, quando gli sgobboni del National bureau of economic research (Nber) hanno fissato la fine ufficiale della Grande recessione, il tasso di disoccupazione è lentamente calato, ma ciò è dovuto principalmente alle persone che hanno rinunciato e si sono ritirate dalla forza lavoro. La porzione di popolazione che oggi ha un lavoro è quasi la stessa di quella dell’inizio degli anni Settanta, prima che le donne entrassero en masse nella forza lavoro.
I prezzi delle case hanno toccato il fondo nel 2009, poi hanno segnato una breve e balbettante ripresa prima di raggiungere un nuovo minimo all’inizio di quest’anno, molto dopo la fine ufficiale della recessione. Circa un proprietario di casa con mutuo su quattro è debitore, per la sua proprietà, di una cifra maggiore del valore di quest’ultima e la crisi dei pignoramenti continua con la stessa violenza. La creazione di nuove imprese è ferma, per arrivare alla fine del mese la gente sta accumulando debiti con le carte di credito e i neo laureati non lasciano più casa per iniziare una propria vita.
Gli elevati prezzi del petrolio hanno ristretto budget familiari già messi a dura prova: la spesa dei consumatori è calata a giugno e il mese scorso la «fiducia dei consumatori» nel futuro è crollata. Lo tsunami giapponese ha provocato sconvolgimenti nelle scorte, l’eurozona è nel caos e l’economia cinese sta rallentando. Con i nostri partner commerciali in forte calo certamente nel futuro prossimo non potremo avere un boom trainato dalle esportazioni.
Il crollo della domanda di beni e servizi prodotti dalle aziende resta il nostro problema centrale e questa difficoltà non potrà che essere accentuata quando alla fine dell’anno si esaurirà l’ultimo dei pacchetti di stimolo, scadrà l’esenzione fiscale temporanea per i lavoratori dipendenti e finirà l’estensione dei sussidi di disoccupazione. Si stima che, se non arriverà un ulteriore aiuto da Washington, gli Stati e le municipalità l’anno prossimo taglieranno 450.000 posti di lavoro del settore pubblico.
L’anno scorso, con l’economia del settore privato che continuava a calare, una ricerca di Moody’s Analytics rilevò che circa un dollaro su cinque di quelli custoditi nei portafogli dei consumatori americani arrivava da uno dei programmi governativi. Il settore pubblico ha già subito tagli profondi, e questa tendenza potrà solo peggiorare con l’attenzione accanita di Washington per la riduzione del deficit. Senza quei dollari, sempre meno consumatori cercheranno le merci e i servizi delle aziende americane e il settore privato continuerà ad essere poco incentivato ad assumere. Nonostante – in base all’accordo per la riduzione del debito – siano in qualche modo «dilazionati», tagli per 70 miliardi di dollari colpiranno prima della fine dell’anno prossimo e ciò costerà all’economia centinaia di migliaia di posti di lavoro. Persone espulse dal posto di lavoro che non riusciranno a pagare i mutui e spenderanno meno soldi.
E non è finita qui. Nel declassare il debito degli Stati Uniti, Standard & Poor’s si è basata su alcune analisi economiche inaffidabili ma la sua visione della situazione politica è azzeccata: il radicalismo del partito repubblicano sta rendendo quasi impossibile governare. Non solo viene di fatto scartato qualsiasi aumento delle tasse, ma anche qualsiasi sforzo per far ripartire l’economia. Il senatore repubblicano Jim DeMint (del South Carolina) ha detto che quella sul tetto del debito è stata solo la prima ripresa di un combattimento in 15 round sulla spesa e i «diritti». Se la loro posizione fosse che dobbiamo restituire il debito mentre la disoccupazione scende sotto il 7% e il mercato immobiliare si stabilizza, non rappresenterebbe un’idea totalmente sballata. Ma farlo ora, in questo clima economico, è una follia ispirata dall’ideologia.
Il vero pericolo è che, se l’economia inizierà a contrarsi, finiremo in una sorta di feedback continuo disastroso. Ciò produrrebbe sicuramente deficit maggiori, nel momento in cui le entrate erariali hanno toccato nuovi minimi ed è cresciuta la richiesta di servizi contro la povertà. I falchi del deficit utilizzeranno l’aumento del del deficit per chiedere nuovi tagli e se non verrà fuori un nuovo motore per la crescita del settore privato, resteremo a galla in posizione verticale. Abbiamo già perso un decennio: dopo il fallimento del «.com», i redditi medi hanno superato quelli del 1999 solo una volta, nel 2006, e da allora sono sempre calati.
Nel suo libro, «Collapse», Jared Diamond descrive una serie di società che hanno visto cambiare il loro ambiente materiale e cerca di determinare che cosa abbia fatto sparire alcune culture e sopravviverne altre. Il fattore determinante non la violenza del cambiamento né la sua rapidità, ma la lungimiranza dei leader di quelle società, la loro capacità di diagnosticare il problema in maniera corretta e adattarvisi: avanzare soluzioni fattive per i problemi che incontravano. Le disgrazie economiche che stiamo patendo sono state create dall’uomo, ma possiamo guardare indietro al periodo in cui la prosperità americana collassò e ritrovare lo stesso tipo di rifiuto ostinato di riconoscere questa realtà come la causa più vicina del disastro.
*Tratto da alternet.org
Traduzione di Michelangelo Cocco

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