Francesco Piccioni
Per fortuna la giornata di ieri vedeva chiusa la borsa americana (festeggiano il Labour Day a settembre, invece che il 1 maggio), altrimenti i danni di questa stampede impazzita avrebbero potuto essere peggiori. Per esempio, il Postal Service ha dichiarato ieri che senza aiuti di stato a breve andrà in fallimento.
Iniziata come sempre dalle piazze asiatiche, l’onda dei ribassi ha fatto il giro del mondo aumentando di volume di ora in ora. A Tokyo, Shangai, Hong Kong, i problemi principali arrivano proprio dagli Stati uniti, che venerdì sera avevano reagito malissimo alla mancata crescita dei posti di lavoro, segno di recessione. Per due paesi che debbono buona parte della loro fortuna alle esportazioni verso gli Usa e hanno investito robuste quote della propria liquidità in buoni del tesoro americano, non ci potrebbe essere incertezza peggiore.
Gli europei sono la seconda preoccupazione globale. Tutti insieme, anche se ovviamente i problemi di ogni singolo paese sono ben chiari a ogni investitore (cioè: speculatore). La strage delle quotazioni di borsa ha colpito in modo equanime sia «l’azionario» che «l’obbligazionario», dove solo i bund tedeschi – nonostante tutto – hanno tenuto alti i prezzi, deprimendo quindi i rendimenti.
La cosa non deve sorprendere. Sia dalla Germania che dalla Cina sono arrivati dati identici: l’indice Pmi di Pechino relativo ai servizi (condotto sugli orientamenti dei direttori degli acquisti delle grandi imprese) è sceso in agosto a 50,6 punti (a Berlino 50,7). È il livello più basso da quando questo indice viene misurato, quindi persino più sotto del 51,2 toccato nel 2009, in piena tempesta finanziaria globale. Un’ultima informazione: il livello «50» indica il passaggio dall’espansione alla recessione, e viceversa. Significa che i due colossi dell’esportazione mondiale hanno finito la benzina e si stanno fermando.
Sul mercato dei titoli di stato va invece segnalato che quelli italiani e spagnoli hanno fatto segnare livelli altissimi di differenziale (spread) rispetto ai bund tedeschi: oltre 370 punti per i Btp nostrani (più dei bonos spagnoli), mentre quelli greci sono arrivati a 1.745 punti e «rendono» ormai più di quel che costano (se mai riuscirete a riavere indietro i soldi, però). Tutto ciò nonostante i massicci acquisti di obbligazioni italiane e iberiche compiute anche ieri da parte della Bce proprio per «limitare i danni» derivanti all’architettura europea da differenziali troppo ampi e destabilizzanti.
E questa attività – segnalata ieri da diversi operatori sul mercato – è uno dei dubbi pesanti per chi investe: la Bce continuerà a comprarli oppure smetterà di farlo per «convincere» i governi che devono agire in tempi rapidi e secondo le indicazioni? Su questo piano rischia di più l’Italia, che ha il governo che ha; mentre la Spagna non mostra grandi crepe dello schieramento partitico, pur con le piazze piene di «indignados».
Ma non è l’unica scadenza a breve che fa tremare. In Germania, domani, la Corte Costituzionale dovrà decidere se è legittimo o meno che il paese partecipi al «piano di salvataggio» della Grecia e al fondo europeo destinato a finalità dello stesso tipo. Anche la sconfitta della Cdu di Angela Merkel nelle elezioni della Pomerania Meclemburgo, di per sé poco significativo, è però indicativa di una crisi politica crescente nel paese più importante della Ue.
Al centro di tutte le perdite borsistiche stanno le banche. I loro bilanci sono minacciati dai titoli di stato che tengono in cassaforte (Joseph Ackermann, ad della Deutsche Bank, ha spiegato ieri che «molte banche europee non sopravviverebbero se fossero costrette a rivedere il valore di titoli di stato posseduti»), oltre che dalla spinta a «ricapitalizzare» che viene dalla Bce e in parte anche dalla causa che la Federal House Finance Agency vuole aprire contro gli istituti che hanno giocato sporco nella crisi dei mutui subprime. Oltre a Morgan Chese, Goldman sachs e Bank of america, nella lista ci sono la stessa Deutsche, Barclays, Rbs, SocGen, Credit Suisse, Hsbc.
Quelle italiane dovevano rispondere entro ieri sera su quanto debito greco hanno in cassa, e soprattutto se intendono partecipare o no – e in quale forma – al «salvataggio» di Atene. In attesa della risposta, IntesaSanPaolo è stata sospesa dalle contrattazioni per eccesso di ribasso (come anche Mediaset, Exor – cioé Fiat – e Impregilo).
Ansia di profitto e stabilità raramente vanno d’accordo, ma mai come ora sembrano motivazioni appartenenti a pianeti diversi.
Iniziata come sempre dalle piazze asiatiche, l’onda dei ribassi ha fatto il giro del mondo aumentando di volume di ora in ora. A Tokyo, Shangai, Hong Kong, i problemi principali arrivano proprio dagli Stati uniti, che venerdì sera avevano reagito malissimo alla mancata crescita dei posti di lavoro, segno di recessione. Per due paesi che debbono buona parte della loro fortuna alle esportazioni verso gli Usa e hanno investito robuste quote della propria liquidità in buoni del tesoro americano, non ci potrebbe essere incertezza peggiore.
Gli europei sono la seconda preoccupazione globale. Tutti insieme, anche se ovviamente i problemi di ogni singolo paese sono ben chiari a ogni investitore (cioè: speculatore). La strage delle quotazioni di borsa ha colpito in modo equanime sia «l’azionario» che «l’obbligazionario», dove solo i bund tedeschi – nonostante tutto – hanno tenuto alti i prezzi, deprimendo quindi i rendimenti.
La cosa non deve sorprendere. Sia dalla Germania che dalla Cina sono arrivati dati identici: l’indice Pmi di Pechino relativo ai servizi (condotto sugli orientamenti dei direttori degli acquisti delle grandi imprese) è sceso in agosto a 50,6 punti (a Berlino 50,7). È il livello più basso da quando questo indice viene misurato, quindi persino più sotto del 51,2 toccato nel 2009, in piena tempesta finanziaria globale. Un’ultima informazione: il livello «50» indica il passaggio dall’espansione alla recessione, e viceversa. Significa che i due colossi dell’esportazione mondiale hanno finito la benzina e si stanno fermando.
Sul mercato dei titoli di stato va invece segnalato che quelli italiani e spagnoli hanno fatto segnare livelli altissimi di differenziale (spread) rispetto ai bund tedeschi: oltre 370 punti per i Btp nostrani (più dei bonos spagnoli), mentre quelli greci sono arrivati a 1.745 punti e «rendono» ormai più di quel che costano (se mai riuscirete a riavere indietro i soldi, però). Tutto ciò nonostante i massicci acquisti di obbligazioni italiane e iberiche compiute anche ieri da parte della Bce proprio per «limitare i danni» derivanti all’architettura europea da differenziali troppo ampi e destabilizzanti.
E questa attività – segnalata ieri da diversi operatori sul mercato – è uno dei dubbi pesanti per chi investe: la Bce continuerà a comprarli oppure smetterà di farlo per «convincere» i governi che devono agire in tempi rapidi e secondo le indicazioni? Su questo piano rischia di più l’Italia, che ha il governo che ha; mentre la Spagna non mostra grandi crepe dello schieramento partitico, pur con le piazze piene di «indignados».
Ma non è l’unica scadenza a breve che fa tremare. In Germania, domani, la Corte Costituzionale dovrà decidere se è legittimo o meno che il paese partecipi al «piano di salvataggio» della Grecia e al fondo europeo destinato a finalità dello stesso tipo. Anche la sconfitta della Cdu di Angela Merkel nelle elezioni della Pomerania Meclemburgo, di per sé poco significativo, è però indicativa di una crisi politica crescente nel paese più importante della Ue.
Al centro di tutte le perdite borsistiche stanno le banche. I loro bilanci sono minacciati dai titoli di stato che tengono in cassaforte (Joseph Ackermann, ad della Deutsche Bank, ha spiegato ieri che «molte banche europee non sopravviverebbero se fossero costrette a rivedere il valore di titoli di stato posseduti»), oltre che dalla spinta a «ricapitalizzare» che viene dalla Bce e in parte anche dalla causa che la Federal House Finance Agency vuole aprire contro gli istituti che hanno giocato sporco nella crisi dei mutui subprime. Oltre a Morgan Chese, Goldman sachs e Bank of america, nella lista ci sono la stessa Deutsche, Barclays, Rbs, SocGen, Credit Suisse, Hsbc.
Quelle italiane dovevano rispondere entro ieri sera su quanto debito greco hanno in cassa, e soprattutto se intendono partecipare o no – e in quale forma – al «salvataggio» di Atene. In attesa della risposta, IntesaSanPaolo è stata sospesa dalle contrattazioni per eccesso di ribasso (come anche Mediaset, Exor – cioé Fiat – e Impregilo).
Ansia di profitto e stabilità raramente vanno d’accordo, ma mai come ora sembrano motivazioni appartenenti a pianeti diversi.
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Anna Maria Merlo PARIGI
Trichet (Bce)/ «UN MINISTRO DELLE FINANZE PER TUTTA L’EUROPA»
Tutti pazzi per l’austerity. Così comincia la recessione e la reazione «populista»
Leader europei nel pallone. La Grecia sforerà il deficit, la crescita sarà «moderata», e l’aiuto della Bce «non deve esser dato per scontato
» PARIGI
Il rigore e l’ortodossia come sole risposte alla crisi. I vertici della Bce (Banca centrale europea), ieri a Parigi, si sono trincerati dietro il diktat del risanamento dei conti pubblici, subito e a qualunque costo sociale. In un intervento a un convegno organizzato dall’Institut Montaigne, un think tank liberista presieduto dal banchiere Claude Bébéar, l’attuale presidente della Bce, Jean-Claude Trichet, ha affermato che è «assolutamente imperativo» rafforzare la sorveglianza economica della zona euro e che ogni paese deve sbrigarsi ad integrare nella legislazione nazionale le norme che «devono permettere di sorvegliare molto più strettamente le evoluzioni dei bilanci nazionali». Trichet rilancia l’idea di un ministro delle finanze europeo che, in mancanza di un vero e proprio governo eletto democraticamente, equivale alla nomina di un pilota automatico alla guida dell’Europa, di una forma di semi-federalismo bastardo. Mario Draghi, che gli succederà a novembre, è sulla stessa linea.
Mentre ieri le Borse sono crollate di nuovo in tutta Europa, Milano in testa, l’ancora governatore della banca d’Italia ha messo in guardia contro eccessive speranze nel Fondo europeo di stabilità finanziaria, da cui «non bisogna aspettarsi troppo», visto che, anche se verrà reso operativo l’accordo del 21 luglio scorso (contiene il secondo piano di aiuto alla Grecia e un ampliamento del Fesf) si tratta solo di una «soluzione di emergenza». In altri termini, ha chiarito Draghi, l’acquisto di titoli di stato da parte della Bce, come avvenuto negli ultimi giorni anche per quelli italiani (cosa che non ha impedito l’allargamento dello spread con i Bund tedeschi, ormai a 370 punti) non è «scontato». Draghi si è dichiarato contro la creazione di eurobond, che per alcuni sembravano essere una via d’uscita. Non solo la Germania (e con lei Austria, Finlandia, Olanda, che si riuniscono oggi a Berlino per accordarsi sull’intervento a favore della Grecia da parte dei paesi «virtuosi») sono reticenti, ma il colpo di grazia preventivo è arrivato dalla solita Standard and Poor’s. L’agenzia di rating ha minacciato di classificare nella categoria «speculativa» gli eventuali eurobond: «Se avessimo delle obbligazioni europee garantite al 27% dalla Germania, al 20% dalla Francia e al 2% dalla Grecia il rating sarebbe allora CC, cioè quello del debito greco», ha affermato Moritz Krämer, capo-divisione del rating in Europa per l’agenzia.
Dalla Grecia arrivano notizie estremamente preoccupanti. Il ministro delle finanze, Evangelos Venizelos, ha riconosciuto venerdì scorso che il deficit supererà l’8% e che i piani di rigore non hanno l’effetto scontato, mentre la troika (Fmi, Bce, Commissione) se ne è andata via precipitosamente da Atene. Se la Grecia non rispetta gli impegni, è in forse il versamento di una nuova tranche, previsto a metà settembre. Domani c’è un appuntamento cruciale per il piano di aiuti alla Grecia: è atteso il giudizio della Corte di Karlsruhe, la Corte costituzionale tedesca, che deve stabilire se è conforme alla legge. Intanto, le banche private frenano sull’accettazione della loro parte, il cui principio di partecipazione al salvataggio della Grecia era stato stabilito nell’accordo del 21 luglio, che ora deve essere approvato da tutti i paesi della zona euro (cosa che prenderà tempo, almeno fino a metà ottobre).
La crisi dura da 18 mesi e i dirigenti europei sono presi dal panico. I «virtuosi» non vogliono mutualizzare il debito (la Finlandia si è già messa d’accordo con la Grecia per ottenere in garanzia l’equivalente del versamento di Helsinki al piano di aiuti ad Atene, cosa che equivale al suo annullamento di fatto). Standard and Poor’s fa previsioni di recessione nella zona euro. Il presidente della Commissione, José Manuel Barroso, dall’Australia risponde che ci sarà una «crescita moderata». Ma la somma dei piani di austerità in tutti i paesi euro non può non annunciare un disastro, con il crollo del potere d’acquisto dei cittadini e i tagli alla spesa pubblica generalizzati. Le scadenze elettorali si accavallano (vari scrutini regionali in Germania, legislative spagnole il 20 novembre, presidenziali francesi nel 2012) e il populismo, che rifiuta la solidarietà, avanza dappertutto.
Il rigore e l’ortodossia come sole risposte alla crisi. I vertici della Bce (Banca centrale europea), ieri a Parigi, si sono trincerati dietro il diktat del risanamento dei conti pubblici, subito e a qualunque costo sociale. In un intervento a un convegno organizzato dall’Institut Montaigne, un think tank liberista presieduto dal banchiere Claude Bébéar, l’attuale presidente della Bce, Jean-Claude Trichet, ha affermato che è «assolutamente imperativo» rafforzare la sorveglianza economica della zona euro e che ogni paese deve sbrigarsi ad integrare nella legislazione nazionale le norme che «devono permettere di sorvegliare molto più strettamente le evoluzioni dei bilanci nazionali». Trichet rilancia l’idea di un ministro delle finanze europeo che, in mancanza di un vero e proprio governo eletto democraticamente, equivale alla nomina di un pilota automatico alla guida dell’Europa, di una forma di semi-federalismo bastardo. Mario Draghi, che gli succederà a novembre, è sulla stessa linea.
Mentre ieri le Borse sono crollate di nuovo in tutta Europa, Milano in testa, l’ancora governatore della banca d’Italia ha messo in guardia contro eccessive speranze nel Fondo europeo di stabilità finanziaria, da cui «non bisogna aspettarsi troppo», visto che, anche se verrà reso operativo l’accordo del 21 luglio scorso (contiene il secondo piano di aiuto alla Grecia e un ampliamento del Fesf) si tratta solo di una «soluzione di emergenza». In altri termini, ha chiarito Draghi, l’acquisto di titoli di stato da parte della Bce, come avvenuto negli ultimi giorni anche per quelli italiani (cosa che non ha impedito l’allargamento dello spread con i Bund tedeschi, ormai a 370 punti) non è «scontato». Draghi si è dichiarato contro la creazione di eurobond, che per alcuni sembravano essere una via d’uscita. Non solo la Germania (e con lei Austria, Finlandia, Olanda, che si riuniscono oggi a Berlino per accordarsi sull’intervento a favore della Grecia da parte dei paesi «virtuosi») sono reticenti, ma il colpo di grazia preventivo è arrivato dalla solita Standard and Poor’s. L’agenzia di rating ha minacciato di classificare nella categoria «speculativa» gli eventuali eurobond: «Se avessimo delle obbligazioni europee garantite al 27% dalla Germania, al 20% dalla Francia e al 2% dalla Grecia il rating sarebbe allora CC, cioè quello del debito greco», ha affermato Moritz Krämer, capo-divisione del rating in Europa per l’agenzia.
Dalla Grecia arrivano notizie estremamente preoccupanti. Il ministro delle finanze, Evangelos Venizelos, ha riconosciuto venerdì scorso che il deficit supererà l’8% e che i piani di rigore non hanno l’effetto scontato, mentre la troika (Fmi, Bce, Commissione) se ne è andata via precipitosamente da Atene. Se la Grecia non rispetta gli impegni, è in forse il versamento di una nuova tranche, previsto a metà settembre. Domani c’è un appuntamento cruciale per il piano di aiuti alla Grecia: è atteso il giudizio della Corte di Karlsruhe, la Corte costituzionale tedesca, che deve stabilire se è conforme alla legge. Intanto, le banche private frenano sull’accettazione della loro parte, il cui principio di partecipazione al salvataggio della Grecia era stato stabilito nell’accordo del 21 luglio, che ora deve essere approvato da tutti i paesi della zona euro (cosa che prenderà tempo, almeno fino a metà ottobre).
La crisi dura da 18 mesi e i dirigenti europei sono presi dal panico. I «virtuosi» non vogliono mutualizzare il debito (la Finlandia si è già messa d’accordo con la Grecia per ottenere in garanzia l’equivalente del versamento di Helsinki al piano di aiuti ad Atene, cosa che equivale al suo annullamento di fatto). Standard and Poor’s fa previsioni di recessione nella zona euro. Il presidente della Commissione, José Manuel Barroso, dall’Australia risponde che ci sarà una «crescita moderata». Ma la somma dei piani di austerità in tutti i paesi euro non può non annunciare un disastro, con il crollo del potere d’acquisto dei cittadini e i tagli alla spesa pubblica generalizzati. Le scadenze elettorali si accavallano (vari scrutini regionali in Germania, legislative spagnole il 20 novembre, presidenziali francesi nel 2012) e il populismo, che rifiuta la solidarietà, avanza dappertutto.
da “il manifesto” del 6 settembre 2011
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