Il comndo spetta dunque alla Germania. Ma tutto sarà ancora rinviato. Forse a prima del G20, forse no. Una panoramica sembra utile, cominciando dal solito, formidabile, contributo di Joseph Halevi.
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Joseph Halevi
too «pig» to fail
Il fondo «salva-stati» è un virus, non la cura
La crisi è il laboratorio di nuove e vecchie gerarchie. Le ricette europee allargheranno ancora di più l’epidemia finanziaria che sta distruggendo il lavoro
Questa debolezza, che scaturisce dal piano Geithner-Summers innestatosi su quello varato da Bush, ha aperto la strada al contrattacco repubblicano.Tuttavia non vi sono grandi problemi per ciò che riguarda la capacità del governo ad onorare il debito. Infatti il tasso sul titolo decennale rimane basso ed è in calo malgrado l’aumento del debito rispetto al Pil.
Per i «mercati» Usa il punto dolens non è il debito pubblico ma la persistente stagnazione economica che per la maggioranza della popolazione si traduce in un continuo peggioramento del salario e della disoccupazione. I «mercati» hanno capito che così non se ne esce ma non c’è nessun programma concreto sul tappeto. Bernanke ha avuto ragione ad osservare che il sistema politico statunitense è broken, rotto, incapacitato a prendere delle decisioni. In quest’ottica la crisi appare difficilmente superabile. Il sistema finanziario ha vinto, appoggiato dalle stesse corporation industriali ma, come era logico, non è in grado di rilanciare il processo di crescita capitalistica.
Negli Usa esisteva una minima volontà iniziale di superare la crisi, schiacciata poi dalla sua forza e dal pluridecennale ancoraggio degli interessi capitalistici all’inflazione dei prezzi degli asset soprattutto immobiliari e finanziari. Nell’Europa dell’euro tale volontà non c’è mai stata. In brevissimo tempo la crisi è diventata il campo di battaglia per rafforzare e formalizzare gerarchie tra Stati e componenti di capitale sul piano intraeuropeo e – soprattutto – per accelerare in maniera irreversibile il già prolungato degrado dei rapporti sociali e di classe in ogni paese. Il processo è incentrato sulla trasformazione di ogni comparto sociale in fonte di tributi finanziari e sulla massima perdita delle capacità contrattuali del lavoro, sia dipendente che di quello autonomo costretto ad essere tale pur non volendolo. Questi obiettivi erano già insiti nella famosa direttiva Bolkenstein e, globalmente, nella costituzione europea trasformata in Trattato di Lisbona dopo la bocciatura subita dai referendum in Francia e Olanda.
A mio avviso la lettera della Bce all’Italia esprime benissimo questa strategia usando la questione del debito pubblico come leva. Ma l’azione intrapresa nei confronti dei debiti pubblici nazionali sta avendo risultati catastrofici sullo stesso terreno finanziario
Dallo scoppio della vicenda greca, sotto pressione tedesca, a quella irlandese, iberica ed italiana, le mosse di Bruxelles e della Bce hanno aumentato il grado di tossicità dei titoli in possesso delle banche. Lo stato delle banche europee, di quelle tedesche e francesi in primo luogo, è patetico. Bruxelles e la Bce hanno permesso che queste occultassero i titoli tossici provenienti dai legami col mercato Usa del subprime e suoi derivati. Contemporaneamente le hanno rifornite di soldi a iosa. Imponendo draconiane misure circa il debito pubblico hanno trasformato i titoli di stato, che gli stessi organismi di supervisione consideravano come garanzia di solidità, in titoli tossici o potenzialmente tossici. Nulla impedisce ai titoli francesi o tedeschi di diventare infetti. Col debito pubblico ufficiale all’80% del Pil e con una crescita vicina allo zero, l’equilibrio di bilancio non sarà raggiunto comportando l’immediata tossicità dei corrispondenti titoli pubblici. In questo contesto perfino la nazionalizzazione per fallimento della gigantesca franco-belga Dexia e delle banche create dalla sua frammentazione, può causare nuove infezioni, dato che lo stato francese e belga non hanno più gli strumenti per farle funzionare.
La tossicità generata dalle istituzioni di Bruxelles e Francoforte è stata istituzionalizzata col fondo salva-stati, varato per salvare banche, il cui ammontare è stato recentemente aumentato. In primo luogo, al momento del loro utilizzo le somme vengono addebitate, per quota parte, al debito pubblico dei paesi che vi hanno contribuito. In secondo luogo, il fondo è tanto opaco quanto i pacchetti che contenevano i titoli subprime.
Il fondo è strutturato in un veicolo di investimento di tipo Cdo (collateralized debt obligations). I Cdo hanno avuto un ruolo di prima importanza nella formazione e contagio della crisi a mondiale. Costituiscono un impegno a pagare sulla base del denaro che il fondo ottiene da titoli e buoni a reddito fisso. In passato i buoni del tesoro pubblici erano i titoli a reddito fisso per eccellenza. Oggi non ce ne sono. Per cui i titoli tossici devono essere salvati da un «pool» di titoli infetti o potenzialmente tali!
Ne consegue che il fondo non salverà nessuno, nemmeno le banche. Il fondo diventa, come tutti i prodotti Cdo, l’agente della propagazione del rischio e dell’infezione. Rispetto agli Usa, l’eurozona si trova dunque nel pieno dell’epidemia della tossicità finanziaria e, come gli Usa, nel pieno della crisi dell’economia detta reale, cioè quella che tocca direttamente la maggioranza della popolazione. Successivamente tratterò della bolla cinese.
Le tre mosse per centrare la via d’uscita
Quando, negli Anni 90, i politici del mio Paese litigavano furiosamente sul fatto che la Gran Bretagna dovesse o meno adottare l’euro, a volte mi stupiva che persone apparentemente sane potessero eccitarsi tanto per qualcosa di tanto noioso e tecnico come un sistema di valuta. Ora, vedendo ogni prossimo vertice dei governi europei annunciato come uno sforzo drammatico per salvare il mondo da un disastro finanziario causato dall’euro, mi rendo conto che sbagliavo. Dice una maledizione cinese: «Possa tu essere condannato a vivere in tempi interessanti», e non c’è dubbio, staremmo tutti meglio se l’euro tornasse a essere noioso.
Purtroppo, non vi è alcuna possibilità che questo accada nell’immediato. Il motivo, che poi è la ragione per cui sia il Consiglio europeo di oggi sia la riunione dei leader mondiali al G-20 in Francia ai primi di novembre sono drammaticamente importanti, è che i problemi veri non sono affatto quelli tecnici. Riguardano invece la politica, le forme di governo, la condotta dei politici e la loro affidabilità e credibilità.
Anche questo, tuttavia, complica il lavoro di questi incontri per trovare una soluzione, e rende ancora più difficile per gli osservatori esterni o, in realtà, per i governi stessi, valutare se le soluzioni annunciate saranno davvero efficaci. È facile descrivere il problema dell’euro in termini apparentemente tecnici. La Grecia è in bancarotta, questo significa che il suo governo non può permettersi di continuare a pagare gli interessi sui suoi debiti, ciò a sua volta significa che le banche che hanno acquistato titoli di stato greci stanno per perdere soldi, se la Grecia, alla fine, dovesse andare in default. Poiché questo default è ormai visto come inevitabile, e ne hanno anche parlato apertamente i funzionari e i politici di Bruxelles e Berlino, gli investitori hanno iniziato a preoccuparsi della solvibilità di altri governi che sono grandi debitori e anche di quella delle banche che hanno loro prestato denaro.
Quindi tutte le persone coinvolte nell’euro sanno cosa si deve fare. Le banche europee devono essere rese più forti raccogliendo nuovo capitale, in modo che possano resistere a eventuali perdite sui titoli greci. Altri Paesi fortemente indebitati – Spagna, Italia, Portogallo e Irlanda – devono essere «separati», nel gergo odierno, e cioè agli investitori deve essere data la certezza che non andranno in default, anche se la Grecia si rivelerà insolvente. E poi la Grecia ha bisogno di andare in default, almeno per dimezzare i propri debiti.
Pare semplice, vero? Il problema, tuttavia, con questo programma tripartito, è la sequenza secondo cui deve essere messo in atto.
Per rendere questo esercizio di salvataggio dell’euro conveniente per i contribuenti che copriranno le perdite delle banche e offriranno prestiti soccorrevoli ai Paesi e per gli investitori privati a cui viene chiesto un maggior capitale, l’ordine giusto in cui fare tutto questo è cominciare con la «separazione». Una volta chiarito che l’Italia e gli altri non causeranno perdite del debito sovrano, la quantità di capitale necessario per rafforzare le banche sarà minore. E poi, fatta la separazione e rafforzate le banche, sarà possibile gestire con facilità un default della Grecia.
Questa però non è la sequenza in cui ci si sta approssimando a questo programma. E non è la sequenza preferita dai politici tedeschi. La sequenza effettivamente in atto comincia dalla Grecia, con un misto di punizione per i greci colpevoli di essere stati mutuatari stravaganti e di aver mentito circa la vera dimensione del loro deficit e dei loro debiti, e con un primo tentativo di condividere con i finanziatori privati le perdite causate dalla Grecia. Questo è stato l’approccio seguito dai leader europei, durante l’incontro del 21 giugno, quando su sollecitazione tedesca la ristrutturazione del debito greco è stata avviata costringendo i finanziatori privati a tagliare «volontariamente» il 20% del valore dei loro prestiti.
Ciò ha portato a speculazioni di mercato su future «volontarie» perdite su crediti per i debiti di altri Paesi e ha spaventato tutte le istituzioni finanziarie che concedono prestiti alle banche europee, motivo per cui oggi vi è la necessità di aumentare il capitale delle banche.
La sequenza di eventi era sbagliata in parte perché era condotta dalle pressioni del mercato, ma anche a causa delle pressioni politiche nel Nord Europa, specialmente in Germania. Quindi la domanda per il summit odierno è se ora la sequenza possa essere modificata, iniziando con il principio della separazione, quindi passando alla ricapitalizzazione delle banche, e concludendo con il default greco. Apparentemente dall’annuncio del vertice sembra di capire che s’intende fare così. Ma la politica rimane un grosso ostacolo.
A parole il principio della «separazione» fa sembrare le cose facili. Si prende un po’ di filo spinato e dei paletti e si recinta la Grecia. Questa è la metafora. La maggior parte dei Paesi vuole che questo sia fatto aumentando i fondi disponibili al fondo di salvataggio dell’Unione europea, noto come Fondo europeo di stabilità finanziaria, per metterlo in condizioni di prestare all’Italia, alla Spagna o al Portogallo danaro bastante a convincere i mercati finanziari che non saranno mai insolventi riguardo ai loro debiti.
Il problema politico con la «separazione» nasce a causa di una domanda fondamentale che sta dividendo i Paesi della zona euro. Si tratta di sapere se in una zona a moneta unica è necessario che i membri si assumano la responsabilità collettiva di tutti i debiti governativi emessi in euro. Quando fu lanciato l’euro nel 1998, la responsabilità collettiva fu deliberatamente respinta.
Una mossa verso la predominante proprietà collettiva dei debiti, attraverso il Fondo europeo di stabilità finanziaria, potrebbe rovesciare tale decisione qualora implicasse che il Efsf non dovrebbe solo prestare denaro in caso di emergenza, ma potrebbe doverlo fare anche in futuro. Lo stesso varrebbe se i membri della zona euro decidessero di autorizzare l’emissione di euro-obbligazioni con garanzia collettiva, come è stato proposto da Giulio Tremonti e da altri.
Cosa c’è di sbagliato nella responsabilità collettiva? Significa, ad esempio, che i contribuenti tedeschi finirebbero per condividere la responsabilità per le pensioni pubbliche italiane o spagnole. O, più importante, la responsabilità di affrontare qualsiasi futura stravaganza da parte di un qualsiasi membro della zona euro. Ciò significa che la responsabilità collettiva porta con sé un grande azzardo morale, un grande pericolo perché potrebbe incoraggiare in futuro il cattivo comportamento dei governi.
In teoria, questo pericolo può essere affrontato istituendo regole rigorose in materia di prestiti e di deficit di bilancio. Ma questo è quel che, teoricamente, è stato fatto nel 1998, e le regole non hanno funzionato. Le nuove regole potrebbero essere stabilite da un trattato piuttosto che solo con un accordo intergovernativo, ma anche questo non ne garantirebbe l’applicazione. I fan dell’integrazione europea dicono che ci deve essere anche un Tesoro europeo, che gestisca un’unione fiscale. Ma questo solleva le stesse domande.
Domande strettamente politiche. Umberto Bossi potrebbe davvero accettare che il suo amato federalismo fiscale sia sovvertito da una forma sovrannazionale di unione fiscale? Silvio Berlusconi accetterebbe di ricevere istruzioni da un Tesoro europeo sull’aumento delle tasse o i tagli alla spesa pubblica? Lo accetterebbe la Francia? Ne dubito.
La reazione politica contro le decisioni imposte collettivamente, contro il dover pagare per la stravaganza degli altri, da diversi anni si sta diffondendo attraverso i Paesi Bassi, la Germania, la Finlandia e perfino nel nuovo Stato membro della Slovacchia. È molto difficile credere che questa reazione sarà superata in tempi brevi. L’umore politico è andato nella direzione opposta rispetto all’unione fiscale, alla responsabilità collettiva e a una più profonda integrazione.
Quindi non possiamo aspettarci che questa richiesta di integrazione, di responsabilità collettiva, sia accolta al vertice di oggi, se mai potrà esserlo. L’istinto politico, soprattutto nel Nord Europa, rimane fortemente a favore di responsabilità nazionale separate riguardo ai debiti.
Al contrario, ci sarà probabilmente un altro tentativo di eludere questa domanda e di prendere tempo. I fondi a disposizione del Efsf saranno aumentati ma la Germania insisterà per regole che limitino l’uso di tali fondi. Poi si aspetterà per vedere come reagiscono i mercati. Se reagiscono con calma le banche saranno ricapitalizzate e alla Grecia sarà consentito di andare in default abbastanza velocemente.
Allo stesso tempo i politici terranno le dita incrociate. Sperando che l’Italia davvero guarderà ai mercati come se fosse separata dalla Grecia. Purtroppo, se la crescita economica s’indebolisce e la paralisi politica che circonda il governo italiano si prolunga, è improbabile che i mercati restino fiduciosi a lungo.
Verso un accordo sulla ricapitalizzazione delle banche. Merkel: la svolta mercoledì
dal nostro inviato Vittorio Da Rold
Una giornata convulsa a Bruxelles, ricca di stop and go, brusche frenate e improvvise accelerazioni, in un clima complessivo dove le istituzioni europee sembrano finalmente aver preso coscienza della estrema urgenza della situazione politico-istituzionale e dell’attacco ai bond sovrani che ormai è giunto al cuore di Eurolandia, alla Francia, l’altro motore dell’Europa insieme alla Germania.
Così sui tre scottanti temi sul tappeto, il debito greco e l’haircut sui bond, la ricapitalizzazione delle banche e il fondo salva-stati, tutti interconnessi fra loro, sono iniziate a filtrare le prime soluzioni o quanto meno bozze meno vaghe di una via di uscita comunitaria.
Banche
Secondo fonti Ue, l’intesa avrebbe come base l’aumento al 9% del famoso coefficiente patrimoniale degli istituti di credito. Sull’ammontare totale delle ricapitalizzazioni da effettuare, le cifre che circolano indicano una cifra tra i 107 e i 108 miliardi rispetto agli 80-100 indicati ieri dall’Eba. Per conoscere però i numerì dell’intesa, secondo le fonti europee interpellate, occorrerà però aspettare quanto meno il vertice dei capi di stato e di governo.
«La partecipazione delle banche deve essere volontaria ma se non saranno d’accordo, si dovrebbe arrivare ad una soluzione obbligatoria», ha detto Jean Claude Juncker, presidente dell’Eurogruppo.
Efsf
Nelle discussioni tecniche in corso a margine della riunione Ecofin di Bruxelles sulle possibili soluzioni per arginare la crisi del debito sovrano è emerso, secondo fonti europee, l’ipotesi di creare un nuovo “Special Purpose Vehicle” (Spv), con garanzie fornite non solo dall’attuale Fondo di salvataggio dell’eurozona (l’Efsf), ma anche da investitori e fondi sovrani internazionali (Cina, Singapore). Il nuovo Spv, secondo le fonti, acquisterebbe i titoli di debito dei paesi dell’eurozona più vulnerabili sui mercati primari e secondari.
Secondo le fonti, si tratta per adesso solo di una delle idee sul tavolo, che ha il merito però di essere una nuova ipotesi, destinata probabilmente a sostituire l’opzione – cara ai francesi ma duramente osteggiata dai tedeschi – dell’uso della leva finanziaria attraverso la trasformazione dell’Efsf in banca, che avrebbe accesso ai prestiti illimitati della Bce per poter acquistare i bond dei paesi dell’euro attaccati dai mercati. Alcune fonti parlano della possibilità che il veicolo possa a sua volta vendere i bond alle banche commerciali che a loro volta li potrebbero portare come collaterali alla Bce. La formula del veicolo permetterebbe alla Germania di non passare tutte le modifiche all’attenzioen della commissione bialncio del Bundestag.
Bond greci
I ministri delle finanze della zona euro avrebbero raggiunto un accordo per chiedere alle banche private che detengono obbligazioni greche un ‘haircut’ «di almeno il 50%» per evitare la bancarotta del paese mediterraneo. Lo ha detto una fonte diplomatica europea, secondo la quale l’eurogruppo avrebbe approvato il rapporto della missione della troika (Ue-Fmi-Bce) in cui si sostiene che le banche dovranno cancellare almeno la metà dei loro crediti. Il vertice europeo del 21 luglio scorso aveva fissato il limite al 21%.
Secondo il cancelliere tedesco Angela Merkel, i ministri delle Finanze «hanno fatto progressi e penso che si possano raggiungere obiettivi veramente ambiziosi da qui a mercoledì». Ora, ha aggiunto, «abbiamo idee più precise sulla situazione in Grecia».
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Juncker, le banche europee dovranno accettare perdite sostanziali
a cura di Stefano Natoli e Enrico Marro
Le banche europee che detengono titoli del debito pubblico greco dovranno accettare di subire perdite “sostanziali” rispetto al loro valore nominale, nel contesto del nuovo piano di aiuti dell’Eurozona ad Atene. Lo ha detto oggi a Bruxelles il presidente dell’Eurogruppo, Jean-Claude Juncker, al suo arrivo alla riunione straordinaria del Consiglio Ecofin, che precede il vertice Ue di domani dedicato alla crisi dell’euro.
«Alla riunione dell’Eurogruppo – ha precisato Juncker – ci siamo messi d’accordo per dire che dovrebbe esserci un aumento sostanziale del contributo degli istituti di credito». Il contributo dei creditori privati dovrebbe passare dal 21% deciso al vertice dell’Eurozona del 21 luglio scorso, al 50%, considerato necessario dalla missione ad Atene della Trojka (Bce-Ue-Fmi) per riportare il debito greco sotto il 120% entro il 2020.
ieri il sì alla sesta tranche di aiuti alla Grecia
Ieri intanto è arrivato il via libera al secondo pacchetto di aiuti alla Grecia. Il vertice è stato però caratterizzato da forti tensioni che minacciano di far naufragare il vertice di domenica (cui è stata aggiunta un’appendice prevista per mercoledì). Un vertice ritenuto fondamentale ai fini del superamento della crisi del debito. Da Francia e Germania – che al momento sembrano divisi su tutto – dipende la scelta delle soluzioni. Secondo il Wall Street Journal, gli incontri preparatori della vigilia non hanno finora portato alcun risultato. Il contrasto, più che sulle scelte tecniche da compiere, sarebbe sulle scelte politiche di fondo.
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