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Disegualianze insostenibili

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Intervista a Guido Rossi – Rossi: mercati e finanza hanno troppo potere – “Troppe disuguaglianze. La finanza non oscuri la politica”
di Mucchetti Massimo

Un’altra giornata di passione nelle Borse. L’Italia sta per fallire, professor Rossi?
«L’Italia ha tutto per essere un Paese solvibile. Ma con il governo che abbiamo, tutto è possibile, anche il peggio. La cattiva reputazione può condannare il debitore più dell’entità del debito».
La Grecia sottopone a referendum il risanamento dei conti pubblici e i mercati vendono.
«Mercati e democrazia non vanno d’accordo tanto facilmente. La moneta ha conquistato la politica per farle pure le idee». E quanto circola nell’establishment vecchio e nuovo non gli pare ancora capace di prendere il toro per le corna. Per lui, il toro è la disuguaglianza tornata ai livelli del 1928.
Cos’è oggi la disuguaglianza?
«Una differenza insostenibile di redditi e di possibilità di costruirsi il futuro. Gli indignados ci dicono che è esplosa dentro l’Occidente. Ma Branko Milanovic, al recente convegno di Milano, ha documentato come sia ancor più drammatica tra l’Occidente e il resto del mondo. La cittadinanza è oggi la prima rendita di posizione».
Contro questa rendita funziona la concorrenza?
«No. Gli Usa approvarono lo Sherman Act nel 1890, altri tempi. L’Italia vara la legge antitrust un secolo dopo, proprio quando la concorrenza per la prima volta estesa su scala planetaria comincia a minare i diritti di cittadinanza, come ben descrive Robert Reich nel suo Supercapitalism. E la globalizzazione porta la disuguaglianza media mondiale a livelli mai visti».
Pentito di essere il padre della legge antitrust?
«No. Ma dobbiamo aggiornarci. Che senso ha l’antitrust sull’economia misurata dal Pil e il nulla sulla finanza derivata che vale 8 volte il Pil del mondo? L’antitrust ha molte anime, non tutte così limpide».
Il Brasile ora protegge la sua industria dell’auto.
«Senza che Fiat e Volkswagen, colà producenti, se ne lamentino. Lula, un sindacalista, ha fatto crescere il Paese e ha ridotto le disuguaglianze con vasto consenso, anche borghese. La globalizzazione non cancella l’interesse nazionale come dicono i teorici del free trade fermi a quando l’industria stava a Manchester e il cotone in India».
Il primo diritto di cittadinanza eroso dalla globalizzazione?
«È la possibilità diffusa di avere una vita migliore. Occupy Wall Street nasce dalla percezione che questo diritto, base del sogno americano, è evaporato».
Cosa muove l’ascensore sociale?
«Dovrebbe essere l’istruzione. Mia madre faceva le pulizie in tribunale, mio padre è morto che avevo 10 anni. L’istruzione mi ha aperto le porte della professione».
Ma l’istruzione costa.
«Per questo deve provvedere la spesa sociale. Del resto, sono campato a borse di studio».
Negli Usa gli studenti si fanno prestare soldi dalle banche.
«E le banche hanno mille miliardi di dollari di crediti inesigibili perché i neolaureati, grazie alla concorrenza globale voluta dal sistema finanziario, non trovano lavoro abbastanza pagato da poter rimborsare il debito».
Paradossale.
«È il segnale di un sistema che ha raggiunto il suo limite e scopre l’inganno politico dell’ideologia del libero mercato come deregulation, che pose fine alla Golden Age rooseveltiana».
In verità, Reagan e la Thatcher vinsero libere elezioni: la Golden Age aveva portato inflazione.
«L’inflazione derivò principalmente dalle guerre del Vietnam e del Medio Oriente. Reagan e la Thatcher vinsero perché i ceti medi, ancora forti delle storiche protezioni, credettero di poter tornare al sogno americano della frontiera. Poi, smantellato il welfare, fermati i salari, hanno scoperto la realtà dei debiti. Come ha ben ricordato Lars Osberg, è stata la disuguaglianza crescente dei redditi a generare gli eccessi di debito privato e pubblico. Ma la disuguaglianza l’ha prodotta la politica che, obbedendo alla finanza, ha creato il mostro che la divora».
E dunque?
«Dunque si deve ripartire dal contenimento delle disuguaglianze per ricostruire una crescita sostenibile, altrimenti si resta prigionieri di quella veduta corta criticata da Tommaso Padoa Schioppa».
Di crescita parlano Trichet e Draghi al governo italiano.
«Quella lettera segnala il predominio della moneta sulla politica. Ma quando il punto centrale è il riequilibrio dei flussi della ricchezza, la politica non può essere delegata alla Bce, che ha per scopo istituzionale la stabilità dei prezzi e degli intermediari».
Le banche centrali sono una riserva di classe dirigente.
«Vero. Ma di che tipo? Leggo sul New York Times e su Le Monde dei tre anni di Draghi vicepresidente per l’Europa di Goldman Sachs a ridosso dello swap che la banca americana organizzò per nascondere il debito pubblico greco…».
Il presidente della Bce ha chiarito di essere arrivato dopo.
«E io non mi associo certo al New York Times che si chiede se sia stato sincero, ma osservo che Draghi firmava paper sui derivati con Robert Merton, il Nobel che era già famoso per aver cofondato il Long Term Capital Management, l’hedge fund fallito nel 1998. Voglio dire che gira ancora la cultura di prima. Che negava in radice il problema della disuguaglianza».
Ma cosa pensa della lettera della Bce e delle richieste Ue?
«Rimettono in discussione pensioni, licenziamenti, professioni. Non una parola sul riequilibrio dei redditi e su una regolazione virile dei mercati finanziari, nonostante Dexia sia fallita tre mesi dopo aver superato gli esami dell’Eba che boccia le banche italiane, ree di avere in pancia i titoli del proprio Paese invece dei titoli tossici di Wall Street e della City».
Ma liberalizzare le professioni è una modernizzazione…
«Questo lo concedo».
E anche il mercato del lavoro…
«Quanti suggeriscono, da sinistra e da destra, l’esempio danese della flexsecurity dovrebbero dire se, a regime, la spesa sociale italiana aumenta o diminuisce, visto che in Danimarca è 3 punti di Pil più della nostra. E come, nel caso aumentasse, la finanzierebbero».
Un discorso da Cgil.
«Credo che la Cgil e la sinistra debbano far tesoro degli errori degli anni 70. La lotta di classe perde senso se è fine a se stessa e non si pone l’obiettivo dell’assunzione di responsabilità. Non a caso a reagire meglio alle crisi sono la Germania e i Paesi scandinavi».

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1 Commento


  • pietrini paolo

    Mi stupisce che l’ill.mo professore accenni al rapporto tra economia misurata dal Pil e finanza derivata, dicendo che questa vale 8 volte il Pil del mondo; quel dato era del FMI nel 2007 e già L’Università di Toronto lo tarava 8,9; un saggio recentissimo pubblicato da fonte insospettabile (“Il sole24ore”) scrive che quel rapporto è ora 11,2 volte. Non ritengo peraltro che la questione sia quella dello scontro fra economia e finanza… figlie entrambe dello stesso padre: è il capitalismo… figliolo, ci direbbe quel tale Carletto che ci ha dato gli occhi della ragione. Paolo Pietrini

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