L’operazione “non standard” della Bce ha riempito le banche di soldi in un momento difficile. La domanda, che esce fuori con chiarezza dagli articoli che qui consigliamo, è: chi paga? Poi guardiamo alle “manovre” che i governi di tutta Europa stanno imponendo ai propri popoli, e lo sappiamo.
*****
C’è qualcosa, che non va… E non si tratta di una canzone. ieri la Banca centrale europea (Bce) ha sfoderato il suo «bazooka» per «tranquillizzare i mercati». Ma senza grandi risultati. Le borse hanno ripreso a perdere terreno, lo spread tra Bund tedeschi e Btp italiani (Bonos spagnoli, ecc) ad aumentare.
Ma non sarebbe stato completo senza il corrispettivo ideato dalla Bce: per la prima volta ha infatti erogato un rifinanziamento a lunga scadenza (tre anni) a favore delle banche commerciali dell’eurozona. Tasso di interesse di assoluto favore: appena l’1%. La speranza esplicita di Francoforte è che le banche usino questa liquidità gratuita – anzi: redditizia – per acquistare titoli di stato dei paesi in difficoltà. Non per nazionalismo o buon cuore: i rendimenti medi superano quasi sempre il 5%. In altri tempi sarebbe stata benzina sul fuoco del carry trade (un gioco facile facile – prendi a prestito yen a gratis per comprare titoli statunitensi che rendevano il 3-4% – su cui si è bruciata infine la finanza islandese).
Oggi no. A parte una prima fiammata di borsa e relativa caduta dello spread, le cose hanno ripreso il solito andamento «pessimistico». Eppure la Bce ha «stampato soldi» virtuali per quasi 500 miliardi di euro, un terzo del Pil italiano. Le banche sono corse a rifornirsi proprio come dei passanti che vedono volar per aria i contanti di una rapina. Fino al giorno prima si ipotizzava una cifra molto inferiore, praticamente la metà. tra i protagonisti, 14 banche italiane, con Unicredit e IntesaSanPaolo a fare la parte del leone: 40,4 miliardi in due.
Qualcuno già parlava della Bce come «un bancomat», naturalmente a disposizione di pochi eletti: 523 istituti che operano sul continente. L’unica «condizione» posta dalla Bce era infatti la consegna, da parte delle banche, di «collaterali» credibili, ovvero garantiti dallo Stato in cui si trova la sede centrale.
Provate un piccolo senso di vertigine? È comprensibile. Questo vortice di denaro «fiduciario» ha molto di malato. Lo Stato (qualsiasi Stato dell’eurozona) garantisce obbligazioni bancarie private «inventate» in pochi giorni, chiedendo esplicitamente alle banche stesse di usare il credito illimitato concesso – su quella base – dalla Bce per… acquistare titoli di stato. Chi garantisce cosa? Chi paga, se le cose si mettono male? Ah, saperlo…
I dubbi che hanno attraversato «i mercati» sono stati certamente più prosaici e numerosi. Nessuno può infatti assicurare che le banche, una volta riempitesi le tasche, ricomincino a prestare a imprese e consumatori. E nemmeno che comprino davvero i titoli di stato, dai rendimenti appetitosi – sì – ma ancora molto rischiosi. Specie se, come ha confermato ieri sera Fitch (una delle tre famigerate agenzie di rating Usa), i principali fondi di investimento americani hanno continuato a vendere gli investimenti denominati in euro, specie i titoli bancari. Bersaglio principale? La Francia (-63% rispetto ad ottobre). Non basta. La European Banking Authority (Eba) ha nei giorni scorsi stabilito che le banche piene di titoli di stato« rischiosi» devono rafforzare il proprio patrimonio (capitale messo a garanzia, non impiegato) per far fronte a eventuali problemi. Solo le banche italiane dovrebbero ricapitalizzarsi per 15,4 miliardi. Ecco che un terzo della cifra presa in prestito ieri dalla Bce risulta già «congelata» per altri scopi. Ma gli stessi istituti sanno che nel 2012, a causa del contemporaneo venire a scadenza di un’infinità di obbligazioni statali e private, potrebbero non riuscire a trovare il modo di rifinanziarsi. Solo quelli italiani dovrebbero trovare almeno 78 miliardi.
La Bce, che ne è ancora più consapevole, ha già reso noto che a inizio anno metterà in atto un’altra operazione di rifinanziamento «illimitata». Di fatto, la Bce comincia ad operare come un sostituto del «mercato», finanziando al bisogno tutte le banche che ne faranno richiesta.
È logico che la Bce provi a impedire un blocco totale del credito (il famoso credit crunch), con le pesanti ricadute sull’economia reale. Ed anche che provi a farlo senza travalicare i propri limiti di mandato (non può prestare soldi direttamente agli stati, né stampare moneta ad libitum, come fa la Federal Reserve Usa). Ma questa immane «partita di giro» (dalla Bce alle banche, ma con garanzia statale per comprare titoli di stato) sa più di alchimia che non di scienza. I mercati l’hanno avvertito. E il «bazooka» rischia di diventare una mazzafionda.
Le motivazioni di questa operazione sono varie. In sintesi: le banche soffrono di una crisi di liquidità e sono tra di loro estremamente diffidenti; è crollata la fiducia; non ci sono soldi per finanziare l’economia reale e concedere mutui; il rendimento dei titoli di stato è salito alle stelle perché i «risparmiatori» temono default generalizzati; nel 2012 dovranno essere rimborsati una montagna di euro (poco meno di 1000 miliardi) di obbligazioni (pubbliche e private) in scadenza e un po’ tutte le banche che dovranno ricapitalizzarsi per fronteggiare la difficile situazione avranno margini più ampi.
Tutto vero, ovviamente, ma l’Europa ancora una volta ha scelto la strada più tortuosa: quella che pone al centro del sistema economico e sociale le banche e i banchieri e, più in generale, il capitalismo finanziario.
Sicuramente questi prestiti generosamente elargiti dalla Bce produrranno alcuni effetti positivi. Su tutti, evitare il tracollo del sistema finanziario europeo e, a catena, di quello mondiale. Forse i rendimenti dei bond pubblici diminuiranno, forse si allargheranno i cordoni del credito a famiglie e imprese, forse saranno evitati default.
Insomma, forse il sistema finanziario sarà risanato. Ma della gente comune, dei lavoratori, dei disoccupati nessuno sembra interessarsi. Eppure l’affermazione che pretende che una finanza sana per alimentare un sistema economico sano è falsa. Anche perché per avere una finanza sana occorrerebbe eliminare le troppe zone di grigio che rendono i mercati (un termine sempre più misterioso) estremamente opachi, una foresta da disboscare per tagliare le ali alla speculazione. Su questo fronte, invece, tutto tace. Non si riesce e non si vuole neppure introdurre una piccola imposta (quella che a sinistra si chiama Tobin tax) sulle transazioni finanziarie speculative.
Il punto è un altro: i presupposti della crisi attuale sono – come nel 1929 – non negli imbrogli del sistema finanziario, ma nel malessere dell’economia reale, nel peggioramento nella distribuzione dei redditi che ha generato una classica crisi di sovraproduzione e sottoconsumo; nello sfruttamento intensivo del lavoro provocato da una globalizzazione sempre più aggressiva. Purtroppo le misure liberiste di Monti oggi e Berlusconi e Tremonti fino a meno di 40 giorni fa hanno mosso nella direzione di peggiorare ulteriormente la situazione del lavoro e della distribuzione dei redditi facendo precipitare l’economia in una nuova fase recessiva.
La necessità quindi non è quella del risanamento del sistema finanziario che – così come oggi è ridotto – potrebbe anche andare in malora senza rimpianti, ma di quello economico. Non tarpando le ali all’iniziativa privata, ma valorizzando e ampliando le funzioni degli Stati negli investimenti e nei consumi. Pubblici, ovviamente.
Un tempo i debiti degli stati con i propri cittadini per finanziare le spese si chiamavano debiti «pubblici». Erano debiti «interni», a differenza di quelli «esteri», verso creditori stranieri. Un debito in dollari andava restituito in dollari; il problema era come ottenere un avanzo di bilancia commerciale o investimenti diretti esteri in dollari. Invece, fino a che gli stati godevano di sovranità monetaria, le banche centrali potevano sempre emettere moneta per restituire il debito pubblico «interno». Ma la situazione oggi è profondamente cambiata. A partire dagli anni ’80, i titoli dei debiti pubblici sono stati piazzati sempre più sui mercati internazionali. Inoltre, a partire dal 2002, quei debiti sono stati denominati in euro; che, seppur non come il dollaro, è però moneta di riserva, cioè accettata da tutti. I debiti pubblici sono detenuti oggi sempre più da creditori esteri, e concorrono con qualsiasi titolo privato sui mercati: da cui il nome «sovrani», per distinguerli. Oggi, la quota dei titoli dei debiti sovrani detenuta dai non cittadini varia tra il 10% del Giappone, il 40% dell’Italia, il 50% degli Stati Uniti fino al 90% dell’Irlanda. L’introduzione dell’euro ha portato un altro cambiamento: il regime dell’euro proibisce esplicitamente alla Bce, in forza sia del Trattato di Maastricht che del suo Statuto, di finanziare i deficit degli stati, con l’acquisto diretto alle aste. La proibizione era invece solo di fatto per l’acquisto sui mercati in quantità tali che configurassero sostegno ai debiti sovrani. Divieto informale aggirato solo parzialmente l’anno scorso da Trichet e totalmente, oggi, da Draghi.
Si possono dunque tirare le somme sui problemi dei debiti sovrani europei. Ogni anno bisogna finanziare sul mercato i deficit annuali, che ricomprendono gli interessi maturati sul debito pregresso. Ma ogni anno va in scadenza anche una quota del debito totale. Tra il 2010 e il 2011 l’Italia doveva rinnovare un debito pari al 40% del Pil, la Grecia il 35, la Spagna il 25 e l’Irlanda solo il 10%. Nella primavera del 2012, l’Italia dovrà rinnovare un’altra tranche grossa, circa il 10% del debito. Diciamo rinnovare perché è ovviamente impossibile ripagare tutto il debito in scadenza. La gestione del debito è un equilibrio tra la necessità di finanziare il deficit annuale e ottenere il rinnovo di quella parte del debito in scadenza che le autorità monetarie ritengono necessario rinviare: il roll-over. Ma da queste cifre si vede come la riduzione o l’azzeramento del deficit siano di poco aiuto, se dovesse davvero venir meno la fiducia dei mercati internazionali sulla solvibilità di un qualsiasi paese del sistema euro; Germania compresa, il cui debito è all’80% del Pil. Per converso, paesi con sovranità monetaria, come la Gran Bretagna, con deficit e quota da rinnovare alte, non hanno registrato le stesse tensioni dei paesi europei.
E’ ovvio che il rinnovo è tanto più liscio quanto meno ci sono preoccupazioni sulla futura solvibilità. Qui sta la chiave della soluzione Draghi alla crisi dei debiti sovrani, che si trascina dalla fine del 2009, e che per l’Italia è esplosa nell’autunno 2011. Mario Draghi, infatti, ha deciso di aprire un credito illimitato al tasso dell’1% alle banche che presentino dei titoli a garanzia, ampliando lo spettro dei titoli presentabili, e prolungando la durata dei prestiti a tre anni. Ovviamente, la Bce si aspetta che le banche approfittino dell’occasione di indebitarsi all’1% per acquistare titoli dei debiti sovrani europei che danno rendimenti molto maggiori. La maggiore domanda di questi titoli sul mercato dovrebbe così alzarne i prezzi e chiudere la fase di crisi, nonché aiutare le banche a aggiustare i loro bilanci.
Fin qui la bella notizia. La brutta è che come condizione per questa apertura della Bce la Ue, ma ancor più la Germania, ha richiesto e ottenuto l’approvazione e l’attuazione di politiche fiscali molto restrittive per pareggiare i deficit di bilancio degli stati membri entro il 2014. L’idea sottostante è che nuove disponibilità liquide indurranno le banche a maggiori concessioni di crediti a famiglie e imprese, e quindi maggiori investimenti e consumi possano compensare i tagli di bilancio.
Personalmente dubito che vada così. E’ improbabile che una tale iniezione di liquidità possa convincere imprenditori, e ancor meno consumatori, a tornare a spendere in un contesto recessivo in cui anche i mercati emergenti danno segni di rallentamento, né gli Stati Uniti hanno ripreso il ruolo di «compratore di ultima istanza» dell’ultimo ventennio. Più probabile, invece, che si accentui la schizofrenia tra mercati finanziari in ebollizione e economia reale arrancante; o anche peggio. Ma questa è un’altra storia.
La vera incognita, dopo il successo dell’operazione di rifinanziamento del sistema a 3 anni condotta ieri dalla Bce, è cosa faranno le banche europee della nuova liquidità a disposizione.
Nei mesi scorsi, a fronte dell’assoluta incertezza sui mercati, le banche hanno spesso optato per ridepositare overnight i fondi ottenuti dalla Banca centrale presso la stessa Eurotower. Martedì, l’importo ha raggiunto i 251 miliardi di euro. Avendo ora però messo a disposizione prestiti a tre anni, la Bce conta che i fondi vengano utilizzati in gran parte per finanziare l’economia reale. «Il canale bancario – ha detto il presidente della Bce, Mario Draghi – è cruciale perla fornitura di credito alle imprese, soprattutto piccole e medie, e alle famiglie». Quanto meno, l’abbondante liquidità dovrebbe servire a impedire un credit crunch, una brutale stretta creditizia che si stava già profilando. II rifinanziamento a lungo termine «non fermerà del tutto il deleveraging delle banche – scrivono in una nota gli analisti di Morgan Stanley – ma dovrebbe rendere il processo più ordinato e contenere la pressione a ridurre l’attivo, il che a sua volta dovrebbe allentare la pressione recessiva in Europa».
Questo dovrebbe avvenire consentendo alle banche di prefmanziare il debito in scadenza nel 2012 e che forma una massa ingente di richieste al mercato per l’anno prossimo, considerato anche il fabbisogno di finanziamento dei Paesi dell’Eurozona. Questa è la strada che prenderà, secondo molti analisti, il grosso della liquidità fornita dalla Bce. Le banche rimetteranno in ordine il passivo, facendo conto sullo scenario, al momento molto probabile, che i mercati restino chiusi anche per tutto il 2012. L’ipotesi favorita a chiare lettere dal presidente francese Nicolas Sarkozy, e che ha fatto dire a qualche commentatore che l’operazione era in realtà una forma di quantitative easing di finanziamento monetario sotto mentite spoglie, è che le banche utilizzino i prestiti ottenuti dalla Bce per acquistare titoli di Stato dei Paesi dell’Eurozona in difficoltà. Anche se si tratta di un carry trade con un ampio margine di guadagno, molti osservatori di mercato sono dubbiosi che questa possa essere la scelta delle banche, se non su scala limitata, o comunque circoscritta a istituti di dimensioni medio-piccole. I grandi hanno cercato in ogni modo negli ultimi mesi, per contrastare la punizione dei mercati, di mostrare di aver allentato il legame con il debito pubblico, e comunque, come ricordato anche dall’Abi, sono sotto la spada di Damocle della European banking autority.
«Restiamo scettici- dice Jonathan Loynes, di Capital Economics – che l’operazione servirà ad allentare la crisi del debito sovrano grazie al fatto che le banche utilizzino i fondi per acquistare forti volumi di titoli pubblici dei Paesi della periferia dell’Eurozona». Si tornerebbe quindi alla strada maestra indicata più volte da Draghi dal suo insediamento all’Eurotower: la Bce si prende cura del sistema bancario, ma i Governi dovranno pensare a se stessi, avviando il risanamento dei conti pubblici, facendo partire le riforme per la crescita, mettendo in piedi una governce efficiente dell’Unione europea. Sui mercati però molti continuano a credere che, a fronte di un deterioramento dell’economia peggiore del previsto, la Bce sarà costretta a scendere nuovamente in campo con maggiori acquisti di titoli di Stato.
*****
- © Riproduzione possibile DIETRO ESPLICITO CONSENSO della REDAZIONE di CONTROPIANO
Ultima modifica: stampa
luciano cantarello
Ma come, anche i sapientoni dottrinari osannanti l’infallibilità e invincibilità del modo di produzione capitalistico, scoprono il tarlo che lo sta distruggendo? ( vedi sovraproduzione) . Ma guarda che “acume critico”! Degli autentici eroi del nostro tempo!