Il Tesoro ha collocato CTz per il massimo importo previsto (2,5 miliardi di euro), ma con un sostanzioso rialzo dei tassi. Il rendimento medio è salito dell’1% dispetto a soltanto un mese fa (dal 2,353% del collocamento di marzo al 3,355%). E si attende l’esito di un’altra asta di BTp indicizzati all’euroinflazione.
Molto peggio è andata per la Spagna, il cui Tesoro ha collocato sul mercato titoli a breve scadenza per 1,93 miliardi di euro. I tassi sono praticamente raddoppiati, nonostante la buona domanda.
Basta un nulla, insomma, per scatenare la paura dei mercati. Persino un grigissimo e affidabilissimo Hollande, di colpo assurto a minaccia per il capitalismo nemmeno fosse la reincarnazione di Lenin. E’ davvero così?
Nemeno per sogno, ovviamente. Tutti gli operatori di mercato sanno – come e meglio di noi – che questa crisi non ha una soluzione all’orizzonte; che il 2012 è l’”anno Maya” della finanza globale perché una massa spaventosa di obbligazioni, statali e aziendali, va a scadenza e va rinnovata; che la debolezza del debito pubblico dei vari stati è una conseguenza diretta del salvataggio delle banche, che però oggi stanno come prima della crisi.
Ogni asta obbligazionaria è guardata con un misto di speranza e terrore. Tutti sanno che qualcuno non riuscirà a rifinanziarsi. Non importa se sarà uno stato di media importanza o una società privata di grande rilievo. Il sistema finanziario è una rete di vasi comunicanti, una strozzatura rimane tale in qualsiasi punto di verifichi. E non conta neppure molto che ciò avvenga per “colpa” di un governo che “non riesce a fare le riforme strutturali” o di un consiglio di amministrazione troppo avido che ha esagerato nei giochini sui derivati. Il capitalismo è un modo di produzione, un sistema che prescinde dalle singole figure (persone, stati, società, banche, ecc); è impersonale, non un mostro antropomorfo. Reagisce come un ecosistema, non ragiona come un comando centrale o come un complotto spionistico. Ci sono ovviamente interessi precisi, complotti piccoli e grandi, finzioni e inganni, speculazioni e sgraffignamenti… Ma sono perturbazioni in un acquario, che provocano reazioni ampiamente scontate, secondo “leggi” che solo Marx sembra aver compreso a fondo.
Anche nella crisi sistemica tutti i soggetti continuano a muoversi secondo le stesse leggi, come se si trattasse di un evento passeggero e non struturale. Questo naturalmente aggrava la crisi. Come una medicina sbagliata che venga prescritta dal medico in dosi più massicce.
Ma se il fallimento di un’asta o di un collocamento è attesso come evento inevitabile, non solo “probabile”, il “nervosismo” o la paura diventano elementi stabili. Ogni giorno viene vissuto come quello buono per il “passo indietro”, per vendere i propri titoli e “restare liquidi”; ogni notizia, per quanto ellittica rispetto al funzionamento dei mercati, ha la capacità di scatenare turbolenze fortissime.
Il povero Hollande, insomma, ha la stessa responsabilità della famosa farfalla che scatena l’uragano in un altro continente. È probabile che abbia spaventato di più la corsa lepenista, misto inestricabile chi protezionismo, razzismo, chiusura, idiozia fatta ideologia.
Ma ancora più importante appare la crisi olandese. Il governo (di centrodestra) che ancor più dei tedeschi aveva fatto delle “politiche di rigore” un diktat da imporre a ogni paese europeo è entrato in crisi sulla gestione del debito pubblico. Del proprio, non dell’altrui. Come un medico che non sappia curare se stesso mentre scrive ricette amarissime per gli altri.
È un segnale che che le politiche fin qui messe in atto – oltre che essere classiste, ingiuste, penalizzanti, squilibrate, infami e affamatrici – hanno un difetto mortale: non funzionano. Quella che appariva “la soluzione”, insomma, all’improvviso appare inutile; peggio, sbagliata. Ma, come spiegava ancora ieri la Fornero ai lavoratori dell’Alenia (sollevando rabbia, per quanto “educata”), “non c’è alternativa”.
Non importa che sia una colpa dell’attuale classe dirigente il fatto di non vedere altre soluzioni. Importa che non le vedano, che non sappiano che altro fare. Questo spaventa più della crisi stessa. La macchina sbanda e il guidatore non sa che fare.
I rischi sono altissimi, perché la prima idea – basta leggere la stampa padronale – è aumentare la dose delle stesse medicine sbagliate. E se le tornate elettorali – questo pallido surrogato di una democrazia scavalcata da decisioni prese in sede “tecnica”, ma valide per un intero continente – appaiono un problema, non manca chi, come Panebianco sul Corsera, è pronto a chiedere meno democrazia.
Qui diventa palese che le questioni economiche sono questioni immediatamente politiche. Di portata storica, che stravolgono i sistemi istituzionali anche in pochi mesi.
Qui di seguito l’editoriale di Panebianco:
L’antipolitica e i suoi antidoti
Di quali istituzioni (e di quali partiti politici) avrebbe bisogno l’Italia per avviare una nuova stagione di crescita economica? Ha senso pensare istituzioni e partiti in questa chiave?
Cominciamo col dire che sarebbe strano se non convenissimo tutti che rilanciare la crescita economica sia la nostra priorità nazionale, lo scopo primario a cui tutti gli sforzi dovrebbero tendere. Riavviare la crescita non serve solo a ridare prosperità al Paese, serve anche a mettere in sicurezza la democrazia. La decrescita provoca impoverimento e, superata una certa soglia, l’impoverimento fa correre rischi mortali alla democrazia. Nei prossimi anni, la competizione fra le forze politiche potrà riguardare, per l’essenziale, solo le differenti ricette per rilanciare la crescita, per invertire la tendenza, per porre termine a quella emergenza nazionale che è il declino economico. E ciò richiederà la capacità di ridurre drasticamente il debito, di abbattere (giunti a questi livelli di prelievo, non si tratta più semplicemente di «abbassare», ma di abbattere) le tasse, di aggredire, possibilmente col lanciafiamme, una burocrazia inefficiente e opprimente.
Un compito del genere richiede istituzioni adeguate, dotate di un forte potere decisionale concentrato. Come si potrebbero altrimenti vincere le immense resistenze che, per esempio, si sprigionano a tutti i livelli contro qualunque ipotesi di riduzione della spesa pubblica o di semplificazione del quadro normativo? Dunque, è necessario irrobustire assai le istituzioni politiche accrescendone autonomia e potere decisionale. In concreto, si tratta di dare alla democrazia italiana ciò che non ha mai avuto: governi istituzionalmente forti.
Ciò si può fare in vari modi, sono possibili diverse strade. Mi permetto di dissentire dall’onorevole Massimo D’Alema quando, in una intervista alla Stampa (del 22 aprile), dice che la sola scelta che abbiamo di fronte è fra il sistema parlamentare e quello presidenziale. In realtà, ci sono vari tipi di presidenzialismo, alcuni efficienti e altri no. E vari tipi di parlamentarismo, alcuni efficienti e altri no. Il nostro, simile a quello della IV Repubblica francese, è, come è noto, altamente inefficiente.
La ragione per cui, su questo giornale, chi scrive ha criticato la bozza di accordo su legge elettorale e riforme istituzionali elaborata da Pd, Udc e Pdl, è che quel progetto non promette di darci ciò di cui abbiamo necessità: governi forti e stabili e drastica riduzione di quei diffusi e radicati poteri di veto che obbligano sempre i governi a compromessi al ribasso, ne bloccano le velleità riformatrici.
In un quadro che fosse di rafforzamento delle istituzioni di governo, i partiti, che sono organismi parassitari (si adattano cioè alle istituzioni in cui operano), non potrebbero avere il ruolo di dominatori delle istituzioni, dovrebbero accettare di essere strutture di servizio e di supporto per candidati in lizza per la guida del governo. Si leggono molti commenti secondo cui la crisi dei partiti personali, da Berlusconi a Bossi, rilancerebbe l’idea del partito a guida «collettiva». Chi lo sostiene forse non sa che, nel caso dei partiti, ci sono solo due possibilità: o sono guidati da un leader (che si candida per la guida del governo) o sono guidati da una ristretta oligarchia. Quanto a struttura del potere, in altre parole, i partiti possono essere solo monocrazie o oligarchie.
Davvero la soluzione alla crisi dei partiti personali sarebbe la rivitalizzazione del partito oligarchico? Nelle altre grandi democrazie europee, dove pure non si è verificata quella traumatica distruzione delle vecchie formazioni partitiche che noi abbiamo sperimentato nei primi anni Novanta, la politica democratica è competizione fra leader, sostenuti dai rispettivi partiti, per la conquista del governo. Ciò è inevitabile in tutti i casi in cui la democrazia si sposi con governi istituzionalmente forti. La concentrazione di potere nelle istituzioni di governo produce concentrazione di potere nei partiti. Chi vuole il partito a guida collettiva (ossia, oligarchico), ne sia consapevole o no, vuole anche ciò che non possiamo più permetterci: istituzioni di governo acefale, deboli e frammentate. Sembra che in Italia ci siano ancora troppi «intellettuali della Magna Grecia», così innamorati delle specificità italiane da non guardare con sufficiente attenzione a ciò che accade in altre democrazie.
L’antipolitica è un sintomo e non la malattia, si gonfia se le classi politiche non riescono a dare risposte plausibili alle sfide. Date risposte plausibili (si tratti di finanziamento dei partiti, di costi degli apparati politico-amministrativi, di riforme istituzionali, ma anche di riduzione del debito, tasse, lotta alla burocrazia, efficienza dei servizi pubblici) e l’antipolitica riprecipiterà in quei bui e un po’ maleodoranti scantinati in cui normalmente si nasconde.
Angelo Panebianco
E quello di Bastasin sul Sole 24 Ore
L’obbligo di dare certezze
Carlo Bastasin
In un clima di incertezza economica senza precedenti, la normale contesa elettorale viene vissuta sui mercati come un fattore di ulteriore instabilità. Francia e Olanda rispetteranno gli impegni fiscali? La Germania sarà frenata dai timori sull’affidabilità dei partner? Le tensioni sociali in Grecia, Spagna o Italia ne pregiudicheranno il risanamento? In media ogni tre mesi si svolgono le elezioni generali di almeno un paese dell’euro area. Nel 2013 in particolare voteranno i due Paesi critici, Italia e Germania. L’incertezza che ne deriva, o addirittura i dubbi sulla democrazia, sarebbero molto minori se disponessimo di una carta nautica che indicasse all’opinione pubblica e ai mercati il porto di approdo di questa travagliata navigazione europea.
Servono maggiori certezze di medio-lungo termine: la prospettiva degli eurobonds; una “roadmap” per la mutualizzazione della politica fiscale; e un metodo di decisione trasparente. Ma lo stesso impegno di lungo termine spetta alla politica nazionale e a quella italiana in particolare, che deve definire il proprio operato non per ciò che ha fatto finora, ma per ciò che intende fare nei mesi e negli anni a venire.Non c’è dubbio che la sfida politica sia forte. L’intera Europa, non solo l’area euro, è destinata a un decennio di bassa crescita. Pesano i debiti pubblici e privati del passato, gli squilibri competitivi da riassorbire e l’andamento demografico. Quando la crescita dell’economia è vicina all’1%, la distribuzione del reddito diventa un gioco a somma zero. Chi guadagna lo fa solo a scapito di qualcuno che perde. Inevitabilmente il tema dell’equità diventa centrale.
Può prendere la strada della protesta oppure della gestione politica dei conflitti: tra chi è più o meno fortunato, tra chi ha un lavoro protetto e chi è precario, o ancora tra chi paga le tasse e chi le evade. Per rendere l’equilibrio meno difficile è necessario fare il possibile sul fronte della crescita. Per questo è tanto importante avere un orizzonte di medio-lungo termine di ritorno alla crescita al fianco delle politiche di contrasto dell’emergenza finanziaria.
Lo sforzo politico italiano deve ancora proporre un piano pluriennale che rassicuri i cittadini sul livello futuro della tassazione e sul piano di recupero della competitività del paese. I partiti dovrebbero dedicarsi a questo impegno comune prima possibile.Ci sono alcuni alibi che vanno evitati. Il primo riguarda l’irresponsabilità delle politiche nazionali. Non è utile vedere nella crisi economica, nell’influenza dei mercati – e nella risposta da parte di organi tecnici (la Bce) o non nazionali (il Consiglio europeo) – una minaccia alla democrazia a cui ribellarsi. Una politica responsabile utilizza questi vincoli come leva per dare spessore al proprio programma. Il secondo alibi è l’allarme per le spinte estremiste antieuropee. La protesta c’è, ma è il contrario di un alibi. In Francia i nazionalisti hanno avuto un forte successo ma l’astensionismo è stato molto basso, non siamo al rifiuto della democrazia. La crisi olandese potrebbe emarginare l’estrema destra. I partiti tedeschi tradizionali – e in fondo perfino quelli italiani – stanno reagendo alle nuove formazioni populiste che raccolgono lo scontento sociale. Al di là del rumore delle campagne elettorali, secondo Eurobarometro, la stragrande maggioranza degli europei vede una soluzione alla crisi solo nella cooperazione politica con gli altri paesi. In genere la politica è sensibile a ciò che la maggioranza degli elettori desidera.
Il terzo alibi riguarda la politica europea. Dietro la facciata del Fondo monetario internazionale nei giorni scorsi si è discusso di un cantiere più ricco di quello che si creda. Il tema dell’integrazione fiscale sta arricchendosi di piani per l’armonizzazione della tassazione, mentre ritorna sul tavolo negoziale la possibilità di un aumento del bilancio europeo. Si lavora a un piano di supervisione comune dei sistemi bancari e all’armonizzazione delle assicurazioni sui depositi. Infine si lavora a diversi progetti di Eurobonds «non troppo distanti», come ammette una fonte tedesca, o di Euro-bills. Progetti tenuti nell’ombra «per non disturbare le ratifiche nazionali del fiscal compact». Da giugno questi temi dovranno tornare pubblici e alla luce del sole.I mercati hanno dimostrato di muoversi rapidamente in negativo, ma anche in positivo. Non è una partita persa quella di convincerli che i paesi dell’euro area hanno intrapreso la strada giusta. Il livello di integrazione garantito dal fiscal compact è sottovalutato perchè la stravagante condotta del nuovo governo spagnolo – che ha smentito l’accordo dopo averlo firmato – ha disorientato tutti. Ma a ben vedere il carattere del nuovo accordo fiscale è ben disegnato. I paesi hanno scadenze da due a cinque anni per correggere i deficit non dipendenti dal ciclo e la rapidità dell’aggiustamento è differenziata da paese a paese. Infine si tiene conto della qualità delle correzioni, offrendo una sponda politica ai paesi che devono ricorrere alle riforme strutturali. C’è flessibilità nel giudizio europeo ed essa corrisponde in positivo alla sottrazione di sovranità fiscale che i paesi hanno accettato nei confronti dei loro partner.
I mercati non hanno capito che l’integrazione politica europea è più avanzata di quanto sono abituati a pensare. Il loro sguardo è sul breve termine, ma talvolta anche un aumento del debito pubblico può nascondere il ritorno alla stabilità fiscale nel medio termine. Per questo il cantiere europeo deve uscire dalla zona d’ombra in cui è tenuto dalla retorica nazionale. A quel punto anche i mercati potranno correggere la loro miopia.
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