L‘Europa spaventa. E le banche fanno il pienoTommaso De BerlangaLa placche tettoniche del sistema finanziario globale si stanno scontrando da cinque anni. E l’unica medicina fin qui capace di ritardare o attenuare i terremoti più violenti si chiama «liquidità»; insomma, soldi regalati al sistema finanziario, perché possa continuare a funzionare al di fuori di ogni controllo e «responsabilità morale». In questo momento, com’è noto, è la «faglia europea» a fare più paura. E la reazione universale – dalla Cina agli Usa – è identica: soldi a piovere per le banche. E basta.
In ordine cronologico. La Cina, che pure prevede quest’anno di crescere dell’8%, ha abbassato i tassi di interesse di 0,25 punti. Una misura per facilitare i prestiti e quindi l’attività economica, perché già vede i segnali di frenata sulle esportazioni verso Europa e Usa. Una misura che si aggiunge ai numerosi ritocchi verso il basso dei «requisiti di riserva» della banche commerciali, decise in corso d’anno dalla Banca centrale cinese. Detto per inciso, è una politica esattamente opposta a quella europea, che va sotto il nome di «Basilea 3» (naturalmente con più restrizioni di quante previste in «Basilea 2»). Lo stesso problema che preoccupa i cinesi sta già mordendo gli altri «Brics» (Brasile, Russia, India e Sudafrica), tutti paesi che hanno fondato il loro rapidissimo sviluppo sulle esportazioni verso le aree più ricche. Privi di un mercato interno in grado di assorbire la loro grandiosa produzione manifatturiera – i salari medi sono troppo bassi – stanno vedendo la crescita fermarsi.
In una situazione problematica, gli ineffabili avvoltoi delle agenzie di rating – controllate direttamente da società o banche che operano sui mercati, sia ufficiali che over-the-counter – indicano i bersagli da colpire. Ieri Fitch ha tagliato il giudizio sulla Spagna di ben tre gradini, portando il voto da «A» a «BBB». In pratica, da domattina, i tassi di interesse che la Spagna dovrà pagare sui mercati per piazzare i propri titoli di stato (Bonos) si innalzeranno di parecchio. Non basta. Ha anche «avvertito» che se la Grecia uscirà dall’euro, opererà una serie di downgrading a raffica su Italia, Spagna, Irlanda, Portogallo e Cipro. Ma saranno tutti i paesi europei, Germania compresa, a essere messi «sotto osservazione».
Non resteranno immuni nemmeno gli Stati uniti, che «non hanno un piano credibile di risanamento fiscale». Se dopo le elezioni presidenziali di novembre (quindi entro febbraio, realisticamente) non ne dovesse uscir fuori uno, allora anche per i Treasury ci sarà un downgrade anche per loro.
Come risponderà la leadership finanziaria statunitense? Con ogni mezzo necessario, ha garantito il presidente della Federal Reserve, Ben Bernanke. Ovvero sparando «liquidità» sui mercati, tanto «non vediamo problemi in arrivo sul fronte dell’inflazione». E ha le sue ragioni, visto che stanno cercando di impedire la ricaduta nella recessione (ma nessuno è riuscito ancora a farlo capire ad Angela Merkel). Parlando daventi alle Commissioni riunite del Congresso, Bernanke ha spiegato che «la crisi in Europa ha danneggiato l’economia Usa, comprimendo le nostre esportazioni, influenzando negativamente la fiducia delle imprese e dei consumatori, mettendo sotto pressione i mercati e le istituzioni finanziarie». Questo, ha spiegato non significa che sia già stata presa qualche decisione su un nuovo «quantitative easing» (prestiti a tasso zero alle banche), ma di certo «siamo pronti ad agire per proteggere la nostra economia se la crisi dell’euro peggiorerà».
Messa così, tutti i paesi principali faranno a breve la stessa mossa (Draghi l’ha già promessa per conto della Bce): e quindi si rivelerà, proprio per questo, inefficace.
L’ANALISILa Grecia può unire l’EuropaGabriele PastrelloE se fosse la Grecia a salvare l’Europa? Dopo tanto chiacchiericcio e terrorismo sulla necessità o sull’impossibilità di salvare la Grecia, di tenerla o cacciarla dall’euro, forse una risposta politica alla crisi dell’euro può partire proprio dal paese economicamente e politicamente più in difficoltà. Si è molto discusso nei mesi passati se la Germania volesse uscire dall’euro o se volesse forzare l’uscita dei paesi mediterranei. Può darsi che ci siano alcune componenti del governo tedesco che lo desiderano. Ma la sensazione è che la Germania voglia davvero una maggiore unificazione europea. Il punto è che questo governo di destra pensa all’unificazione europea come la fece la Prussia nei confronti degli Stati tedeschi del sud, dopo il 1870. In questo quadro la durezza verso la Grecia è stata l’occasione per mettere alla prova questa linea.
Il punto di partenza è l’esportazione in tutti i paesi dell’euro della rigorosa politica anti-inflazionistica tedesca attraverso l’imposizione dell’assoluto rigore fiscale. Che in una struttura unitaria gli Stati debbano rinunciare all’autonomia fiscale è ovvio, ma il punto è che qui si sta invertendo l’ordine dei fattori: invece che prima l’unità, con le istituzioni corrispondenti, si propone non solo pareggi di bilancio ma anche cessione di sovranità fiscale prima dell’unificazione. Per di più, in un momento già con tendenze recessive, questo non può che produrre una grave recessione in Europa. Questa strategia ha l’effetto collaterale non irrilevante di mettere in sicurezza il ruolo di capo-filiera dell’export europeo per l’industria tedesca, ridisegnando l’economia europea come subfornitrice della Germania. Ciò richiede, lungo la filiera, un taglio di salari diretti e indiretti, che permettesse al suo vertice, le imprese tedesche, di mantenere margini di profitto. Su questo, da Draghi a Monti, non vi era dissenso.
Inoltre, ciò richiede una politica monetaria europea che funzioni come servomeccanismo di quella interna tedesca. Una politica monetaria che si occupi solo dell’inflazione, mentre tutte le funzioni di governo dell’economia europea sono avocate alla politica fiscale sotto rigoroso controllo tedesco. Così era stata disegnata la Bce, come una specie di banca centrale di un sistema aureo di nuovo tipo, dove l’oro è sostituito dall’euro come moneta su cui gli stati non debbono avere nessuna possibilità di influire. Le difficoltà create dalla posizione debitoria degli stati mediterranei, sia nei confronti della Bundesbank, sia nei confronti dei mercati – il cui segnale è l’esplosione degli spread – hanno forse fatto pensare che questo era il momento dell’affondo. La Grecia ne è stato il banco di prova. Ma sono stati fatti due errori: il primo è che la linea di austerità provoca effetti recessivi più elevati di quelli previsti, e ciò introduce elementi di instabilità politica difficili da controllare. Inoltre, la previsione era che l’economia tedesca sarebbe stata immune dalla recessione europea, ma il rallentamento anche dei paesi emergenti ha messo in difficoltà questa linea. L’avallo del governo Merkel alle richieste dei sindacati tedeschi di aumenti salariali è un chiaro segno del ripiegamento sullo stimolo della domanda interna, politica negata agli altri paesi europei.
Il secondo errore è che, come la storia insegna, una gestione rigida dei sistemi monetari in tempi di crisi provoca la loro esplosione. Fu così nel 1931 quando molti paesi europei dovettero abbandonare il gold standard. Anche adesso, la pretesa della Germania di minimizzare gli interventi di sostegno finanziario ai debiti sovrani e ai sistemi bancari in difficoltà sta accelerando la crisi. L’austerità, invece di rassicurare i mercati, li sta allarmando ulteriormente. Le dichiarazioni ripetute contro i salvataggi hanno distrutto la credibilità dell’euro come moneta comune.
Questa situazione ha reso necessario l’intervento della Bce ben oltre i limiti desiderati dalla Germania. Le misure del Governatore Draghi di assicurare credito illimitato alle banche, con l’obiettivo di sostenere indirettamente i debiti sovrani, avevano l’obiettivo di impedire il collasso finanziario europeo. I limiti della misura di dicembre e la crisi bancaria spagnola incombente hanno portato Draghi a un’uscita sovversiva: unificazione bancaria significa che le banche tedesche debbano essere controllate da un’autorità sovranazionale e che la politica della banca centrale debba rispondere alla necessità di stabilità dell’eurozona e non dagli obiettivi di politica monetaria tedesca. Su questo punto, la linea Draghi e le esigenze elettorali di Obama si scontrano con la strategia tedesca del governo economico dell’Europa esclusivamente via austerità fiscale.
L’ostinazione con cui il governo tedesco persegue la sua linea sta rischiando di portare l’Europa nel baratro. Forse Merkel conta ormai solo nel fallimento e nel distacco della Grecia per convincere i riottosi alleati. Il rifiuto della Grecia di farsi sacrificare potrebbe far precipitare la crisi e riaprire la partita politica della modalità dell’unificazione europea. D’altro lato, Draghi si sta candidando a essere il vero Governatore di un vera banca centrale europea, che necessita però di una controparte politica davvero europea, e non solo tedesca. Anche Draghi ha bisogno della resistenza greca, che potrebbe essere quel sassolino che inceppa anche gli ingranaggi più potenti. La Grecia prigioniera, dicevano i latini, aveva catturato Roma. Ci accontenteremmo di molto meno: che la fermasse.
- © Riproduzione possibile DIETRO ESPLICITO CONSENSO della REDAZIONE di CONTROPIANO
Ultima modifica: stampa