Tira una brutta aria, spiega la Bce nel suo Bollettino mensile. E non c’è alcune segno che possa migliorare. Anzi, per i mesi a venire «le basse aspettative emerse nel corso delle indagini suggeriscono ulteriori incrementi nel breve termine».
Il linguaggio è come sempre sorvegliatissimo, ma resta facile da decrittare. A soffrire di più è l’occupazione, che «sta diminuendo costantemente», al punto che «il tasso di disoccupazione ha raggiunto livelli storicamente elevati». L’11%, come media continentale. La preoccupazione è almeno duplice: un numero troppo alto di senza lavoro rende più probabili «tensioni sociali», la mancanza di reddito potrebbe obbligare qualche governo ad allentare i cordoni della borsa quando a assegni di disoccupazione o più welfare.
«Nein», dice Mario Draghi da Francoforte, per una volta in sintonia con il potente azionista di maggioranza relativa della Bce, ovvero Bundesbank. «Non esiste alcuna alternativa possibile al rigoroso risanamento dei conti pubblici», perché il meccanismo dominate è ormai noto: i «mercati pretendono» certezza, i governi debbono dargliela. altrimenti la pagano carissima. Quindi, «eventuali attenuazioni degli sforzi» sul fronte del rigore «accrescerebbero l’incertezza». Lì per lì sembrerebbero dare ossigeno alla «crescita», ma – secondo la visione ideologica difesa dalla Bce – alla lunga finirebbero per «frenare l’attività economica in misura decisamente maggiore» di quanto già non avvenga con la stretta sulla spesa. Gli esiti per i tassi di interesse da pagare sul debito pubblico sarebbero, in questa visione, devastanti.
Draghi riconosce che molto è stato fatto su questo fronte, con costi sociali immensi. Ma non basta mai: «occorrono ulteriori sforzi per ripristinare la sostenibilità delle finanze pubbliche e la fiducia». Dei mercati, ovvio…
Messa così, il rallentamento dell’attività economica che sta stringendo alla gola tutta l’Europa – ed anche la Germania – non ha soluzioni. Si attende che il mercato riparta di sua volontà o possibilità. Ma intanto è recessione.
Soprattutto per l’Italia. Che grandi complimenti per «gli obiettivi di risanamento dei conti pubblici ora considerevolmente più ambiziosi», oltre che per il «pareggio di bilancio inserito (a forza, ndr) nella Costituzione» e l’obiettivo dell’1,7% nel rapporto deficit/Pil per quest’anno, 0,5 nel prossimo e il pareggio nel 2014. Ma i complimenti finanziari non fanno marciare l’economia, tantomeno l’occupazione. Ma qui c’è il passaggio socialmente più duro di tutto il messaggio di Draghi: «l’adeguamento dei salari dovrebbe avvenire in maniera flessibile, riflettendo le condizioni del mercato del lavoro e la produttività». Insomma: niente aumenti, se l’economia non cresce. Ma se i consumi continuano a ridursi, l’economia segue questo piano inclinato. La crescita solo «export oriented» dell’Italia anni ’50 è ormai appannaggio di altri paesi. Draghi è il primo che dovrebbe saperlo.
Lo stallo operativo sembra insomma completo. La Bce potrebbe forse varare a medio termine un altra «iniezione di liquidità», anche se non lo ha annunciato. Ma è ormai chiaro a tutti che si tratta di palliativi che permettono di prendere tempo, perché l’attacco alla zona euro è facilitato dall’assenza di un «governo unitario» reale, paragonabile – anche come credibilità internazionale – a quelli statunitense e cinese.
Le due settimane davanti a noi sono dunque decisive per sapere se l’Unione europea farà un deciso passo avanti o tentennerà ancora una volta, scoprendo i fianchi a chiunque voglia speculare sulla rottura dell’euro. Gli sguardi sono universalmente rivolti a Berlino, chiamata ad assumersi il ruolo di chi detta le regole perché mette i soldi necessari a respingere nuovi attacchi. Angela Merkel, ieri, nè è sembrata consapevole e preoccupata. «La forza della Germania non è inesauribile, anche noi abbiamo dei limiti». E ha rilanciato chiedendo che sia il G20 di Los Cabos – lunedì e martedì – a «impegnare tutti i partner a fare sforzi per sostenere la crescita». Sarebbe stata una buona idea, se non avesse aggiunto: «serve un piano d’azione, ma non da finanziare con i debiti». Ma oltre alla Cina, oggi, chi è che ha liquidità in attivo, invece che debiti?
Il linguaggio è come sempre sorvegliatissimo, ma resta facile da decrittare. A soffrire di più è l’occupazione, che «sta diminuendo costantemente», al punto che «il tasso di disoccupazione ha raggiunto livelli storicamente elevati». L’11%, come media continentale. La preoccupazione è almeno duplice: un numero troppo alto di senza lavoro rende più probabili «tensioni sociali», la mancanza di reddito potrebbe obbligare qualche governo ad allentare i cordoni della borsa quando a assegni di disoccupazione o più welfare.
«Nein», dice Mario Draghi da Francoforte, per una volta in sintonia con il potente azionista di maggioranza relativa della Bce, ovvero Bundesbank. «Non esiste alcuna alternativa possibile al rigoroso risanamento dei conti pubblici», perché il meccanismo dominate è ormai noto: i «mercati pretendono» certezza, i governi debbono dargliela. altrimenti la pagano carissima. Quindi, «eventuali attenuazioni degli sforzi» sul fronte del rigore «accrescerebbero l’incertezza». Lì per lì sembrerebbero dare ossigeno alla «crescita», ma – secondo la visione ideologica difesa dalla Bce – alla lunga finirebbero per «frenare l’attività economica in misura decisamente maggiore» di quanto già non avvenga con la stretta sulla spesa. Gli esiti per i tassi di interesse da pagare sul debito pubblico sarebbero, in questa visione, devastanti.
Draghi riconosce che molto è stato fatto su questo fronte, con costi sociali immensi. Ma non basta mai: «occorrono ulteriori sforzi per ripristinare la sostenibilità delle finanze pubbliche e la fiducia». Dei mercati, ovvio…
Messa così, il rallentamento dell’attività economica che sta stringendo alla gola tutta l’Europa – ed anche la Germania – non ha soluzioni. Si attende che il mercato riparta di sua volontà o possibilità. Ma intanto è recessione.
Soprattutto per l’Italia. Che grandi complimenti per «gli obiettivi di risanamento dei conti pubblici ora considerevolmente più ambiziosi», oltre che per il «pareggio di bilancio inserito (a forza, ndr) nella Costituzione» e l’obiettivo dell’1,7% nel rapporto deficit/Pil per quest’anno, 0,5 nel prossimo e il pareggio nel 2014. Ma i complimenti finanziari non fanno marciare l’economia, tantomeno l’occupazione. Ma qui c’è il passaggio socialmente più duro di tutto il messaggio di Draghi: «l’adeguamento dei salari dovrebbe avvenire in maniera flessibile, riflettendo le condizioni del mercato del lavoro e la produttività». Insomma: niente aumenti, se l’economia non cresce. Ma se i consumi continuano a ridursi, l’economia segue questo piano inclinato. La crescita solo «export oriented» dell’Italia anni ’50 è ormai appannaggio di altri paesi. Draghi è il primo che dovrebbe saperlo.
Lo stallo operativo sembra insomma completo. La Bce potrebbe forse varare a medio termine un altra «iniezione di liquidità», anche se non lo ha annunciato. Ma è ormai chiaro a tutti che si tratta di palliativi che permettono di prendere tempo, perché l’attacco alla zona euro è facilitato dall’assenza di un «governo unitario» reale, paragonabile – anche come credibilità internazionale – a quelli statunitense e cinese.
Le due settimane davanti a noi sono dunque decisive per sapere se l’Unione europea farà un deciso passo avanti o tentennerà ancora una volta, scoprendo i fianchi a chiunque voglia speculare sulla rottura dell’euro. Gli sguardi sono universalmente rivolti a Berlino, chiamata ad assumersi il ruolo di chi detta le regole perché mette i soldi necessari a respingere nuovi attacchi. Angela Merkel, ieri, nè è sembrata consapevole e preoccupata. «La forza della Germania non è inesauribile, anche noi abbiamo dei limiti». E ha rilanciato chiedendo che sia il G20 di Los Cabos – lunedì e martedì – a «impegnare tutti i partner a fare sforzi per sostenere la crescita». Sarebbe stata una buona idea, se non avesse aggiunto: «serve un piano d’azione, ma non da finanziare con i debiti». Ma oltre alla Cina, oggi, chi è che ha liquidità in attivo, invece che debiti?
da”il manifesto”
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