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Confindustria “sente” la guerra

 

Il rapporto del Centro Studi, il testo completo:

 

Confindustria sente la guerra
 

Gli «effetti della crisi» sono devastanti tanto quanto un conflitto armato, spiega Giorgio Squinzi. Intanto la recessione si aggrava (-2,1% nei primi sei mesi) «e non ne usciremo rapidamente». Riviste in peggio tutte le stime economiche per i prossimi due anni

Francesco Piccioni
La parola «guerra» viene usata di solito e con eccessiva precipitazione o dopo esser stata trattenuta a lungo. La sortita di Giorgio Squinzi, ieri, sulla base del rapporto elaborato dal Centro studi di Confindustria, sembra appartenere al secondo genere.
È quindi la presa di coscienza, da parte del vertice imprenditoriale italiano, che «gli effetti della crisi» in corso sono già ora paragonabili a quelli di un conflitto non solo economico. In particolare, il presidente di Confindustria ha indicato i due punti nevralgici che sono già stati pesantemente intaccati. Sono «le parti più vitali e preziose del sistema Italia: l’industria manifatturiera e le giovani generazioni, quelle da cui dipende il futuro del Paese».
È vero. Senza più una struttura industriale di rilievo e con le giovani generazioni condannate alla fuga all’estero o alla precarietà eterna (dove si vede facilmente che il «migrare» da un lavoretto all’altro non comporta alcuna crescita della professionalità, ma solo delle frustrazioni), questo paese non può avere futuro. Ma ci si sarebbe attesi anche una nota autocritica, da parte delle imprese. Lo smantellamento industriale ha galoppato per due decenni lungo i sentieri della delocalizzazione; e la pessima sorte dei giovani è un prodotto diretto delle politiche del lavoro volute da Confindustria e disegnate dalla «politica» («pacchetto Treu» e «legge 30» sono stati un cadeau bipartisan alle imprese).
E invece, tartufescamente, solo le imprese vengono dipinte come un nucleo positivo in un deserto di decadenza. Un vero salto mortale all’indietro, in uno studio che a sorpresa tiene insieme Gunnar Myrdal e Giorgio VI d’Inghilterra. Con il primo che cancella qualsiasi illusione sulle «capacità autoregolative spontanee dei mercati» (anzi…) e il secondo a richiamare «l’unità del paese»… che va alla guerra.
Una guerra davvero strana, però, visto che tutta la seconda parte è un fuoco di file continuo contro lo Stato. Pardòn, contro «la burocrazia». Qui lo slancio dell’apertura mentale iniziale si rovescia nel più classico e scontato «siamo tutti sulla stessa barca, voi pensate a remare» con gli imprenditori ripresi in pose degne di Enrico Toti. La «guerra» di Squinzi è dunque per un verso «classica» negli effetti (impianti chiusi, disoccupazione in vorticoso aumento, attività in dismissione, ecc), ma senza «nazionalismi statalisti». E’ invece il risultato finale – e scontato – di una competitività crescente in spazi di mercato sempre più stretti. Perché verso l’alto dell’innovazione c’è la Germania o gli Usa e dal basso arriva l’imbattibile pressione degli «emergenti». Messa così, la «guerra» ha un corso segnato.
Confindustria perciò è «costretta» a credere nel possibile e rapido aumento dell’integrazione europea, nonostante i macroscopici «errori di gestione» imputati al duo Merkel-Sarkozy («di solo rigore si muore», e perfino un «i greci meritano più tempo per il risanamento dei conti pubblici»). Un’adesione «totale» che ha come speranza esplicita il ritorno alla crescita economica. Che però le previsioni del Csc allontanano brutalmente nel tempo e soprattutto gelano nelle dimensioni. Naturalmente senza neppure prendere in considerazione lo scenario davvero bellico della possibile esplosione dell’euro a scadenza ravvicinata.
In attesa dell’auspicata «nuova fase dell’integrazione», dunque, i numeri sono agghiaccianti. Solo il commercio mondiale – in secca frenata per quest’anno – è visto in ripresa già dal 2013 (+4,5%). Il resto è sconfortante. La «ripresa Usa» è una brezza leggera rispetto al passato (+1,9%); quella dei paesi emergenti rallenta ancora, ma rappresenta lo stesso l’80% della crescita globale. Il petrolio tornerà presto sui 100 dollari al barile, e anche l’euro – se resiste – dovrebbe tornare ad apprezzarsi sul dollaro (fino a 1,32 invece dell’attuale 1,25). Due notizie che non possono affatto piacere a dei produttori di merci fisiche «export oriented».
Del resto le imprese non investono più (crollo dell’8%), e anche il mattone è in crisi nera. E le banche, dal canto loro, non prestano non prestano più soldi a nessuno; nemmeno ad altre banche.
La «recessione italiana» ha bruciato già il 2,1% di Pil rispetto allo stesso periodo dello scorso anno; a metà anno, dunque, si è già realizzato quasi tutto l’arretramento (-2,4) che ci si aspettava spalmato sui 12 mesi. E naturalmente la spesa per consumi crolla in misura vistosa (-4,3%), anche perché i prezzi dei generi di prima necessità sono cresciuti quasi nella stessa misura. E qui il Csc si dà la zappa sui piedi constatando che l’aumento della disoccupazione (prevista all’11,8% il prossimo anno, record storico) contribuirà a mantenere «basse le retribuzioni di fatto». Come sempre, i padroni fanno fatica a capire che il loro dipendente è anche un potenziale «cliente»; e se lo paghi troppo poco quello comprerà in proporzione: pochissimo e solo le merci vitali.
E sullo sfondo resta l’aumento dell’Iva del 2% da ottobre, se non si troverà un modo diverso di finanziare la riduzione del debito. Pioggia salata, insomma, su campi che sono già aridi per conto proprio.

 

da “il manifesto”

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