Da quattro anni a questa parte i «liberi mercati finanziari», summa imperscutabile dell’iniziativa privata, vivono nell’attesa delle mosse delle principali banche centrali e della quantità di debito pubblico che gli stati sono disposti a dar loro in pasto.
Da giorni attendevano le parole con cui Ben Bernanke, presidente della Federal Reserve statunitense, avrebbe pronunciato a Jackson Hole, tradizionale appuntamento annuale dei banchieri centrali, cui Mario Draghi – pari grado nella Bce – non è riuscito neppure ad andare per eccesso di impegni europei. La scommessa – evidente nel rialzo dei listini di mezzo mondo fino a metà pomeriggio – era per l’annuncio di «nuovi interventi a sostegno dell’economia» da mettere in azione immediatamente. Come sintetizzava in serata Jack Ablin, uno dei tanti squali di Wall Street, «volevamo qualcosa in cui affondare i denti, e lui oggi non ce l’ha dato».
Il cauto Bernanke ha in qualche modo deluso ma rassicurato: «la Fed non può escludere» di dover agire se la situazione «lo impone». Va ricordato che, diversamente dalla monotematica Bce, la Fed tiene d’occhio per statuto due obiettivi: il controllo dell’inflazione (come in Europa) e la dinamica dell’occupazione. Quindi non solo il «rigore», ma anche la «crescita». Quelli che per Draghi sono insomma «strumenti non convenzionali» di politica monetaria, che sollevano il sopracciglio arcigno della Bundesbank tedesca, per Bernanke sono misure praticabili, anche se «eccezionali».
In ogni caso, ha avvertito, «le stime sugli effetti delle misure straordinarie di stimolo all’economia e sull’inflazione sono incerte». Perché «l’uso di queste politiche non tradizionali comporta costi più alti che vanno oltre quelli normalmente associati» a scelte più ordinarie. E quindi anche «la soglia di rischio» che giustifica il loro utilizzo è «significativamene più alta». Insomma, non è un’aspirina a basso costo che si possa sommistrare spesso, come «i mercati» vorrebbero. Anche perché «da sola la politica monetaria non può ottenere i risultati che si possono ottenere con un numero di politiche economiche e in particolare non può neutralizzare i rischi fiscali e finanziari fronteggiati dal paese». Oltretutto Bernanke deve tener conto delle elezioni presidenziali di novembre, cercando di scansare il sospetto di vole aiutare o danneggiare – con le proprie scelte – il presidente uscente.
Ma le ragioni per intervenire ci sono, sono vicine nel tempo ed oggettive. La già debole jobless recovery sta rallentando a vista d’occhio e l’alta disoccupazione «è un motivo di grande preoccupazione non solo per le enormi sofferenze e lo spreco di talento umano che comporta ma anche perchè livelli durevolmente alti di disoccupazione arrecano un danno strutturale alla nostra economia che può durare per anni». E non ha avuto problemi ad ammettere che la performance dell’economia resta «ben lungi dall’essere soddisfacente». C’è dunque la ragionevole certezza che Bernanke interverrà «se necessario», in base agli indici economici pubblicati nei prossimi giorni; e soprattutto «nella misura necessaria».
Ma quale tipo di intervento? L’indizio è stato offerto in modo chiaro: «gli acquisti di titoli di stato Usa» effettuati in pasato dalla Fed hanno «portato giovamento all’economia», quindi potrebbero averlo anche in futuro. Un quantitative easing numero tre, con nella mente gli otto mesi di «toro» inanellati dalle borse dopo la seconda tranche.
Come hanno osservato giustamente molti commentatori, in questo modo Bernanke ha passato la palla alla Bce, che giovedì prossimo dovrà illustrare le proprie scelte: abbassare ancora i tassi di interesse, acquistare bond, premere per un varo anticipato del nuovo fondo salva-stati (Esm), ecc. In fondo, tra le «principali preoccupazioni» della Fed ci sono «i problemi europei che minacciano l’incertezza delle prospettive americane». Se qualcuno deve agire per primo, insomma, spetta certamente all’Europa. E le borse, lì per lì sconcertate, alla fine hanno apprezzato la promessa, segnando guadagni in media superiori ai due punti percentuali. «Qualcosa da addentare», in fondo, c’era.
da “il manifesto”
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