«Questi non sono tempi normali»Francesco PiccioniUna dote va sempre riconosciuta a Mario Draghi: la capacità di volare molto più alto della media dei protagonisti della politica europea. Cìò non vuol dire naturalmente trovarsi d’accordo, ma concordare sul «livello» di riflessione che la crisi dell’euro deve mettere in moto. In chi ha sposato in pieno questo modello di costruzione dell’edificio europeo, come in chi lo contesta.
Il suo intervento pubblicato dal Die Zeit ed esplicitamente rivolto ai tedeschi (i quali dovranno nei prossimi giorni digerire dalla Bce misure «non convenzionali» che guardano con infinita preoccupazione) straccia con un colpo d’ala il chiacchiericcio inconcludente e iper-nazionalistico che ha fin qui caratterizzato il dibattito sull’euro, sui paesi «cicala» e quelli «formica». Non è un discorso in difesa del suo operato come presidente della Bce, ma in attacco verso classi dirigenti «puramente nazionali», ossessionate soprattutto dalla propria rielezione e perciò capaci soltanto di proporre «scelte aut/aut: o torniamo al passato o avanziamo nel processo di costruzione europea».
Al passato non si torna più, avverte.
È vero, deve ammettere, che «le valute dipendono dalle istituzioni che hanno dietro» e fin dall’inizio «c’era chi diceva» che sarebbe stato meglio far precedere la moneta unica da «un lungo processo di integrazione politica». La strada scelta è stata opposta («una moneta senza stato»), pensando forse che un procedimento «tecnico» avrebbe evitato lunghe e inconcludenti discussioni politiche, imponendo obblighi di lungo periodo non più ricontrattabili.
Questo non si può ormai più cambiare. La crisi ha evidenziato i «gravi problemi» dovuti all’«avere un’unica politica monetaria e politiche di bilancio o finanziarie scarsamente coordinate». Un incubo per chi deve «prendere decisioni forti». Ma le prende, come fa anche la Bce, con un pragmatico work in progress che approssima l’obiettivo dell’«unione politica» senza attendere che si realizzi. E senza che la «legittimazione democratica» sia preliminare alle scelte da fare (ma questo Draghi evita di dirlo).
Qui sorgono tutti i problemi e i conflitti tra interessi diversi. Perché è chiaro che, se si vuole mantenere una moneta unica, «serve una supervisione reale sui bilanci nazionali»; uno Stato che non ha una «nazione» dietro non può infatti permettersi a lungo «certe regioni costantemente in disavanzo rispetto alle altre». Così come, per le politiche finanziarie, «le autorità centrali devono poter disporre di poteri» per limitare «l’eccessiva assunzione di rischi da parte delle banche». Idem per le politiche fiscali.
Per Draghi i passaggi politici e quelli economico-finanziari possono e debbono andare in parallelo, con una continua revisione dei trattati in senso centralizzatore. «La sfida» è naturalmente quella di «incrementare ulteriormente la legittimità di questi organismi» sovranazionali «proporzionalmente all’incremento di responsabilità». Altrimenti diventa impossibile il controllo delle tensioni sociali conseguenti a questi processi (come si è visto in Grecia e si comincia a vedere in Spagna).
L’istituzione chiave di questo processo è dunque «anche» la sua Bce. La quale, certo, «rimarrà indipendente e agirà sempre nei limiti del suo mandato» (solo la stabilità dei prezzi, per statuto). Ma Draghi ha buon gioco a far notare che «quando i mercati sono frammentati o influenzati da timori irrazionali, i segnali di politica monetaria che mandiamo non raggiungono in modo uniforme i cittadini di tutta la zona euro». E quindi, in situazioni eccezionali come questa, «per adempiere al nostro mandato è necessario andare oltre i comuni strumenti» descritti nei manuali. Insomma, «la Bce non è un’istituzione politica, ma è consapevole delle sue responsabilità in quanto istituzione dell’Unione europea». Ruolo che le leadership nazionali elette non sempre – o quasi mai – riescono a comprendere.
Il paradosso è però sempre in agguato. Mentre, tra i tedeschi, è la «politica» Angela Merkel (sostenuta da Wolfgang Schäuble) a fargli da sponda, la Bundesbank del collega Jens Weidmann cerca di frenarlo proprio nei suoi slanci «non convenzionali». Visto attraverso questo scontro, dunque, la difesa della zona euro e l’avanzamento della «costruzione unitaria» europea appaiono processi altamente controversi, tra un’élite multinazionale fortemente sostenuta da impersonali «mercati» e interessi «locali» capaci solo di produrre attrito, non di rovesciare la tendenza.
Ma emerge anche la straordinaria fragilità di questa architettura che può solo andare avanti nell’autocostruzione, cercando poi la «legittimità democratica» sull’onda dei propri successi. Quando questi si tramutano in sconfitte che comportano enormi sacrifici per tutte le popolazioni si scopre che non esiste un «piano B», Nè il ritorno allo statu quo ante.da “il manifesto”
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