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Fmi in rotta di collisione

Si incrina il ferreo controllo delle istituzioni sovranazionali sulla gestione della crisi globale. E viene a sorpresa messa in discussione l’efficacia delle ricette fin qui imposte dalla Troika (Bce, Ue e lo stesso Fmi) ai paesi con debito pubblico eccesivo.

La contraddizione emersa tra Fondo monetario internazionale e Federal Reserve statunitense – troppa liquidità immessa dagli Usa sui mercati può causare bolle speculative e inflazione nei paesi emergenti – rende evidente che, come al solito degli ultimi 41 anni, gli Stati Uniti cercano di risolvere i loro problemi economici scaricandoli sul resto del mondo. Lo strumento è sempre la stampa di dollari, reali e/o virtuali, che debbono essere accettati a livello globali come corrispondenti di un valore che non è più quello nominale. La radice di questa possibilità unica – nessun altro paese si può permettere di emettere quantità discrezionali di moneta senza farla immediatamente deprezzare – sta nell’abbandono del gold exchange standard che reggeva il sistema di Bretton Woods. Decisione presa nell’agosto 1971 dal governo di Richiard Nixon e che ha creato una perenne instabilità monetaria sempre risoltasi a vantaggio degli Stati Uniti; che, in pratica, hanno potuto acquistare nel mondo masse sterminate di merci pagandole con una moneta dal valore presunto. Un modo di finanziare quasi a gratis i propri consumi interni, e quindi di garantirsi pace sociale; ma che ha comportato una radicale crisi dell’export statunitense. Soprattutto, come ogni soluzione umana, non poteva essere eterna.

Ora gli effetti sono avvertiti da partner e competitor potenti, non da vassalli poveri. Cina, Brasile, Russia, in primo luogo, possono farsi sentire con efficacia anche nelle sedi internazionali – come il Fmi – dove gli Usa per oltre 60 anni hanno dettato legge. Costringendo quindi Christine Lagarde a un inedito esercizio di “cerchiobottismo” per tenere insieme l’”apprezzamento” per le decisioni della banche centrali euro-americane e l’irritazione-preoccupazione degli emergenti. Vedremo nelle prossime settimane gli sviluppi, perché in ogni caso la Fed continuerà a pompare circa 85 miliardi di dollari al mese nei “mercati”.

L’altro elemento, introdotto dagli analisti del Fmi, è forse ancora più devastante per i “rigoristi” che hanno avuto fin qui mano libera nel dettare le condizioni ai vari Piigs. Riportiamo per intero il passaggio dall’articolo del Il Sole 24 Ore:

“La parola-chiave si chiama “moltiplicatore”: negli ultimi rapporti degli esperti dell’Fmi ha causato uno shock analitico che farà discutere a lungo. In sostanza, l’Fmi si è accorto che gli aggiustamenti fiscali hanno un effetto depressivo sull’economia superiore a quanto riteneva in passato (ed è ritenuto dai rigoristi di ogni specie). Non si tratta di accademia, ma dello spartiacque tra lavoro e disoccupazione per milioni di persone: se a un Paese vengono richieste misure di austerità che penalizzano troppo la sua crescita e tendono anzi a innescare circoli viziosi (non riuscendo cioè nemmeno a centrare l’obiettivo di un miglioramento fiscale), allora la ricetta va cambiata.

In fondo è un’ammissione che lo stesso Fmi a lungo è stato un dottore maldestro per i Paesi che son stati costretti a chiedere il suo intervento. E porta a un cambiamento di toni: l’enfasi non è più solo sul consolidamento fiscale, ma sul bilanciamento tra consolidamento e crescita”.

Già Joseph Halevi, nei giorni scorsi, aveva colto questa “svolta” nell’analisi del Fmi. Noi ci limitiamo a sottolineare che il “moltiplicatore” è un concetto-chiave del pensiero keynesiano. Soltanto che qui si rivela essere attivo all’incontrario. In pratica, per Keynes, un aumento di spesa pubblica – comunque effettuato – mette in moto un aumento molto maggiore del prodotto interno lordo (Pil). Ora il Fmi scopre che tagliando la spesa pubblica – come da Fondo stesso consigliato per decenni – ha un effetto deflazionistico e depressivo. Una conferma in negativo, insomma.

Non ci metteremo qui a discutere dell’impossibilità di “politiche keynesiane” in questa crisi. Basterà intanto notare che non c’è uno “stato globale” che possa determinare un effetto del genere; mentre l’adozione di misure espansive su base nazionale non può che portare, come negli anni ’30, a “scaricare” infine la sovraproduzione in ricerca di “mercati da conquistare” a scapito dei concorrenti. E quindi, di fatto, alla guerra.

Insomma, non vi aspettate un’improvvisa retromarcia dei governi europei. Basterebbe leggere l’editoriale di oggi del duo Alesina-Giavazzi (quest’ultimo addirittura “consulente” del governo) per rendersene conto.

Bernanke respinge le critiche della Lagarde: niente danni con la liquidità Usa all’economia mondiale

Il diluvio di nuova moneta immesso in circolo dalla Federal Reserve non danneggia i paesi emergenti. A sostenere, infatti, che il terzo programma di alleggerimento quantitativo (QEIII) non avrebbe ripercussioni di sorta è stato il presidente della Fed, Ben Bernanke, intervenendo al seminario annuale organizzato dalla Banca centrale del Giappone e dell’Fmi. La politica accomodante attuata dalla banca centrale degli Stati Uniti, ha sottolineato Bernanke, «punta a raggiungere il suo duplice mandato che è quello di favorire l’occupazione e la stabilità dei prezzi. Questa politica non solo aiuta a rafforzare la ripresa economica degli Stati Uniti ma ha l’effetto di sostenere anche l’economia globale».

Bernanke non ha concesso spazio alle critiche espresse proprio a conclusione del seminario dalla direttrice generale del Fondo monetario internazionale (Fmi), Christine Lagarde. Un quadro per nulla rassicurante. Secondo Bernanke, tuttavia, la Fed sta svolgendo «un ruolo fondamentale nel sostenere l’economia degli Stati Uniti». Per il presidente della Fed, «non è affatto chiaro che le politiche accomodanti adottate dalle economie avanzate hanno come conseguenza maggiori costi sulle economie emergenti».

«Le politiche monetarie accomodanti nei paesi avanzati – aveva spiegato Lagarde – sono suscettibili di alimentare i flussi di capitali volatili verso le economie emergenti. Questo potrebbe ridurre la capacità di queste economie ad assorbire potenziali vasti flussi di capitali e condurre ad un surriscaldamento, alla formazione di bolle sui prezzi di alcuni attivi e alla nascita di squilibri finanziari». Lagarde, con stile un po’ cerchiobottista (con le critiche ha assecondato i malumori di Cina e Brasile, due dei Brics, in allarme per un possibile boom inflazionistico), ha tuttavia poi elogiato le misure adottate dalle banche centrali che «vanno nella direzione giusta, solide iniziative prese dalle banche centrali che l’Fmi considera come contributi importanti alla stabilità».
Dichiarazioni che non sono servite ad allentare del tutto la tensione tra l’istituzione finanziaria di Washington e il numero uno della Fed.
L’attrito tra Bernanke e Lagarde arriva alla vigilia di un ennesimo summit europeo, in programma a Bruxelles il 18 e 19 ottobre. Dovrebbe entrare nel vivo il confronto sulla vigilanza Bce, primo passo per andare nella direzione dell’Unione bancaria. Giovedì e venerdì i leader europei, all’indomani dell’attribuzione di un controverso premio Nobel per la pace all’Ue, cercheranno di sbloccare l’impasse e raggiungere un compromesso per arginare le preoccupazioni tedesche. In agenda anche la creazione di un bilancio per l’area euro.

Si dovrebbe parlare, anche se non formalmente anche di Grecia. Dopo aver terminato l’esame dei conti, gli esperti della troika (Ue, Bce, Fmi) sarebbero giunti alla conclusione che Atene avrebbe bisogno di due anni supplementari per portare a termine le riforme strutturali. Secondo il settimanale tedesco Der Spiegel, gli auditori della troika «hanno chiesto la settimana scorsa ai ministri delle finanze della zona euro di concedere due anni in più alla Grecia», come richiesto da Atene.

L’Fmi sarebbe pronto a concedere questo rinvio, mentre alcuni paesi della zona euro sono reticenti a mostrare condiscendenza verso Atene e vorrebbero chiedere maggiori sforzi alla Grecia. Il rinvio di alcune riforme strutturali al 2016 costerebbe ai creditori di Atene circa 30 miliardi di euro, scrive ancora lo Spiegel.

Dai vertici finanziari di Tokyo giudizio positivo sul Governo Monti. Il Fmi: ora puntare di più sulla crescita
dall’inviato
Stefano Carrer

TOKYO – È un bilancio a luci e ombre quello che si può trarre al termine della settimana dei vertici finanziari mondiali (Fondo Monetario e Banca Mondiale, con contorno di G7, G24, East Asia Summit e collaterali).

La buona notizia. L’Italia non è stata “attenzionata” dai poliziotti dell’Fmi: il nostro Paese non è stato al centro né delle preoccupazioni né delle critiche. Il ministro Vittorio Grilli ha sottolineato che né a livello formale né a livello di colloqui informali sono arrivati segnali di particolari timori o insofferenze, anzi è stato generalizzato il giudizio positivo sull’azione del governo Monti.

La cattiva notizia. Nel quadro dell’abbassamento delle stime sulla crescita mondiale, il Fondo Monetario si è detto più pessimista anche sull’economia italiana: la nostra recessione durerà fino al 2014, visto che anche l’anno prossimo si dovrebbe chiudere con un Pil a passo del gambero (-0,7).

La sorpresa tecnica. La parola-chiave si chiama “moltiplicatore”: negli ultimi rapporti degli esperti dell’Fmi ha causato uno shock analitico che farà discutere a lungo. In sostanza, l’Fmi si è accorto che gli aggiustamenti fiscali hanno un effetto depressivo sull’economia superiore a quanto riteneva in passato (ed è ritenuto dai rigoristi di ogni specie). Non si tratta di accademia, ma dello spartiacque tra lavoro e disoccupazione per milioni di persone: se a un Paese vengono richieste misure di austerità che penalizzano troppo la sua crescita e tendono anzi a innescare circoli viziosi (non riuscendo cioè nemmeno a centrare l’obiettivo di un miglioramento fiscale), allora la ricetta va cambiata. In fondo è un’ammissione che lo stesso Fmi a lungo è stato un dottore maldestro per i Paesi che son stati costretti a chiedere il suo intervento. E porta a un cambiamento di toni: l’enfasi non è più solo sul consolidamento fiscale, ma sul bilanciamento tra consolidamento e crescita.

L’Eurozona e il dissenso sulla Grecia. In parte legata alla scoperta sul “moltiplicatore” è la chiarezza con cui il diretore generale Christine Lagarde ha detto che alla Grecia vanno concessi altri due anni per attuare il consolidamento fiscale promesso. Una dichiarazione dalla quale ha preso le distanze il ministro tedesco Schauble, che non ha nascosto la sua irritazione, in quanto ritiene che prima di trarre conclusioni vada atteso il rapporto della Troika sulla Grecia. Attenzione, però: non si tratta del tedesco cattivo. Anche il ministro Grilli si è espresso nello stesso senso: attendere la Troika, non ragionare in astratto. Anche perché, alla fine, si tratta anche dei soldi dei contribuenti italiani. Il Fondo ha raccomandato all’Eurozona di accelerare sulle riforme, notando un miglioramento ma sottolineando che altri passi sono necessari verso una maggiore integrazione. In ogni caso, se l’Eurozona resta il maggior fattore di rischio per crescita e stabilità globale, non è certo l’unico. Il “fiscal cliff” negli Usa (ossia i tagli automatici di spesa pubblica che si attiverebbero in mancanza di un accordo al Congresso) viene subito dopo ed è seguito dai rischi di ulteriore rallentamento nei Paesi emergenti, a partire dalla Cina.

Il fallimento. Il più evidente flop del vertice riguarda la riforma della governance, di cui è stato sancito il rinvio dell’attuazione almeno fino al gennaio 2014. Anche se il piano finalizzato a dare più quote e voce in capitolo ai Paesi emergenti è stata approvato fin dal 2010 – con una scadenza per il via libera definitivo entro questo vertice – la mancata ratifica da parte del Congresso Usa – impantanato nelle polemiche bipartisan – continua a bloccarlo. Il paradosso è che era stata l’Amministrazione Usa a caldeggiarlo. Avendo già raggiunto il consenso (secondo le indicazioni disponibili) di almeno 113 stati membri su 188 e del 75% dell’azionariato del Fondo, davvero manca solo Washington (che ha una quota di oltre il 17%) pe rraggiungere l’85% necessario. Il G24 (che raggruppa Paesi in via di sviluppo e emergenti) ha duramente stigmatizzato lo stallo su una governance che continua a privilegiare i Paesi di vecchia industrializzazione senza riflettere le nuove realtà globali.

Lo sgarbo cinese. La Cina ha perso un’occasione per dimostrare di essere uno “stakeholder” responsabile della comunità internazionale: prima le banche commerciali, poi i suoi massimi rappresentanti istituzionali hanno annunciato di disertare l’assemblea annuale di Fmi e Banca Mondiale. Il motivo sostanziale riguarda il contenzioso con il Giappone sulle isolette Senkaku, ma lo sgarbo non è stato solo a Tokyo. Naturalmente la Lagarde non ha potuto che ironizzare sul fatto che i cinesi si sono persi un vertice molto interessante e ben organizzato.
I successi giapponesi. Il cosiddetto “Sendai Dialogue” – il Forum di due giorni organizzato nel capoluogo del Tohoku, la regione devastata dallo tsunami dell’anno scorso – è stato molto positivo nel rendere la comunità internazionale più consapevole della necessità di prevenire i disastri naturali e di prepararsi ad affrontarli. La Banca Mondiale si è impegnata a includere il “disaster risk management” come elemento in tutti i suoi programmi di assistenza ai Paesi in via di sviluppo. Tokyo, inoltre, ha pilotato un nuovo passo forse decisivo per il rientro di Myanmar nella comunità internazionale: organizzando una conferenza dei creditori e annunciando l’erogazione di prestiti propri per coprire il debito pregresso di Myanmar con Fmi e Banca Mondiale, il che consentirà alle istituzionali internazionali di riprendere in un prossimo futuro a concedere crediti al Paese del Sud-Est asiatico avviato verso riforme democratiche.
L’insuccesso giapponese. La diplomazia di Tokyo si è data molto da fare per rendere edotti i partner sulle difficoltà che il rialzo dello yen crea alla sua economia. Ma ha trovato orecchi da mercante o infastiditi: il tema valutario non è entrato tra quelli rilevanti. In un momento in cui vari esponenti dei mercati emergenti biasimano le tendenze manipolatorie di alcuni Paesi avanzati (apartire dagli Usa, per i continui allentamenti quantitativi della Fed che finiscono per indebolire il dollaro), era difficile che le lamentele giapponesi – finalizzate a cercare un consenso per un possibile intervento diretto sul mercato dei cambi – potessero trovare eco.

Il debutto. Ha fatto buona impressione il nuovo presidente della World Bank, l’americano di origini coreane Jim Yong Kim. Anche per il suo passato – dagli studi tecnici alle esperienze non tanto politiche ma sui versanti della solidarietà -, è parso credibile nel suo entusiasmo verso quello che ha indicato come obiettivo: trasformare la World Bank in una “solutions bank” più efficiente e attenta ai risultati. La sua strada è in salita, visto che l’istituto rischia un ridimensionamento sia del suo ruolo sia dei finanziamenti a disposizione per lo sviluppo.

I dubbi finali. In definitiva, certificato il rallentamento della crescita globale, l’Fmi ha espresso raccomandazioni sulla necessità di accelerare l’introduzione di misure finalizzate sia alla stabilizzazione finanziaria sia alla crescita economica, benedicendo le politiche espansive o ultra-espansive delle banche centrali. Chi si aspettava di più è rimasto deluso e ha definito la settimana dei vertici finanziari mondiali come un “talking shop” globale, un costoso forum di discussione – per di più delegittimato da una governance sbilanciata in favore dell’Occidente – da cui non è uscito niente di davvero concreto. D’altra parte, è probabile che questi stessi critici sarebbero ancora più severi se l’Fmi si desse ambizioni da direttorio mondiale.

da Il Sole 24 Ore

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1 Commento


  • MaxVinella

    Il vero problema sono gli oltre 400.000 miliardi di dollari ( pari a sei volte il PIL mondiale) messi in giro sotto forma di futures, derivati ed altra consimile robaccia da una ristretta cerchia di mega-banche, con in testa la Goldman Sachs del nostro caro amico Monti !!

    Ora non sanno più come fare a tenere in piedi tutta questa montagna di carta completamente slegata da ogni connessione con l’economia reale, che, se dovesse crollare, travolgerebbe tutto e tutti !!

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