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Fmi e Comitato Basilea: “l’austerità ci strozza”

Chi andava bene (la Cina) va un po’ meno forte, chi andava discretamente (Brasile e altri Brics in genere) si è fefrmato o quasi, chi andava male è andato peggio.

L’Eurpa più di tutti sta pagando il prezzo di un’”austerità” più ideologica che reale (nel senso tecnico dl termine: si svuotano i bilanci statali per quanto riguarda la spesa sociale, ma si erogano cifre di varie volte superiori per “salvare le banche” o garantire liquidità al sistema).

Ma ora qualche dubbio sull’efficacia di queste strategie comincia a far capolino nelle analisi preoccupate di un componente fondamentale della stessa Troika, quel Fondo monetario internazionale che tanti disastri ha seminato per il mondo fornendo “prestiti” condizionari a politiche draconiane di riduzione della spesa pubblica e privatizzzazione totale dell’economia.

In un studio redatto da Olivier Blanchard (capo economista del Fondo) e Daniel Leigh si prende in esame l’impatto dell’austerità su Pil ed occupazione, visto che in molti avevano contestato la capcità dello stesso Fmi di “soppesare” esattamente le conseguenze dei propri “consigli”.

Sotto accusa è curiosamente – per dei liberisti convintissimi – il ruolo del “moltiplicatore”, che ha invece un ruolo enorme nel “sistema” keynesiano (tra virgolette, perché le teorie di Keynes tutto sono tranne che un insieme sistematico coerente). È noto che in quella teoria la spesa pubblica, comunque effettuata, mette in moto una quantità di attività privata tale che il Pil di un paese ne risulta aumentato in misura superiore alla spesa iniziale. Per esempio, un aumento dell’1% di spesa statale produce il 2% o più di Pil rispetto a prima. Negli anni ’70 questo felice “automatismo” è andato in crisi, ma ora non è importante addentrarsi nelle ragioni di quel fallimento.

L’aspetto attuale è che le due teste d’uovo del Fmi mettono in chiaro che il moltiplicatore funziona anche al contrario (meno spesa pubblica comporta in proporzione una maggiore diminuzione del Pil). Non solo. Dicono anche che la misurazione di questo effetto – nei calcoli precedentemente effettuati – era sottostimata. Se l’austerità imposta è per esempio pari allo 0,5% del Pil (come previsro per il 2010-11), il Pil stesso diminuisce invece di quasi l’1% in più di quanto previsto. Ovvero l’1,5. Un disastro, perché uscendo dall’asetticità dei “numeretti” (0,5 o 1,5 in fondo sembra una differenza minima), ne deriva un impoverimento generale triplo rispetto alle previsioni.

L’altro problema è che il debito pubblico resta alto o basso indipendentemente (o quasi) dalle politiche di austerità. Il “quasi” è d’obbligo, perché nel caso greco è aumentato dal 120 al 170% del Pil; e anche in Italia tredici mesi di “cura Monti” hanno fatto salire il debito al 126. Il che appare decisamente logico: se il Pil scende per l’effetto congiunto di crisi e taglio della spesa, le entrate fiscali diminuiscono molto più di qunto non venga tagliato. E la recessione si avvita.

Nemmeno la dinamica dello spread dipende soltanto dalla “solidità dei conti pubblici”. Dicono i due: “Per esempio, un aumento degli spread potrebbe anche essere il risultato di una crescita inferiore a quella attesa e anche causa di minore crescita. In tal caso, una crescita economica inferiore a causa dell’austerità potrebbe generare un aumento degli spread, e tali aumenti di spread potrebbero, a loro volta, ridurre ulteriormente la crescita del PIL”. In una economia, infatti, si devono considerare unitariamente tutte le variabili, evitando di concentrarsi – come fanno i liberisti – soltanto su quelle che non piacciono (la spesa pubblica, ovvio!). Se l’economia nel suo insieme si blocca, anche grazie alle politiche di austerità, lo spread sale perché “le prospettive” di solvibilità del paese sul debito tendono a peggiorare.

Giustamente diversi commentatori ironizzano sui modelli econometrici di Giavazzi e Alesina – con cui spesso anche noi polemizziamo – che raccontano una realtà inesistente, in cui il taglio della spesa fa sempre bene all’economia. Paradossalmente, ma non troppo, l’effetto più pesante si è avuto sugli investimenti privati, “scoraggiati” dal crollo generalizzato dei consumi sia pubblici che privati.

Il secondo segnale pesante arriva dal Comitato di Basilea, da cui derivano le “regole” che le banche debbono applicare, in primo luogo per quanto riguarda le riserve poste a garanzia delle “attività” (prestiti, investimenti, ecc). È un comitato importante, composto dai Governatori delle banche centrali e dai responsabili delle autorità di sorveglianza bancaria.

Costo hanno deciso di “alleggerire” le norme appena fissate nel cosiddetto “Basilea 3”, in particolare le norme che regolano il liquidity cover ratio, un coefficiente che misura gli asset facilmente vendibili (come titoli di Stato o altri bond ad alto rating) di cui le banche devono dotarsi per prevenire eventuali situazioni di rischio sistemico.

L’alleggerimento è molto consistente. La precedente normativa prevedeva che – a partire dal 2015 – le banche avrebbero dovuto portare questo “ratio” al 100% delle risorse necessarie a fronteggiare un periodo di congelamento del mercato interbancario della durata di 30 giorni. Ora la soglia è stata portata al 60%. Non solo. Tra gli asset considerabili come “garanzia” vengono incluse anche alcuni tipi di azioni, e persino i famigerati “titoli garantiti da mutui”. Una classe di patrimoni che non sempre si è rivelata solida (la crisi del 2007 è iniziata proprio con lo scoppio della “bolla” dei mutui subprime, che ha travolto rapidamente molti “prodotti finanziari” considerati a “tripla A” garantiti dai mutui stessi).

In più, i supervisori nazionali potranno applicare anche queste nuove regole meno ferree con una flessibilità discrezionale abbastanza ampia.

L’intenzione sembra chiara: evitare che le banche private concentrino tutti i loro sforzi nell’aumentare la liquidità “congelata” come garanzia (le premesse per un temutissimo credit crunch) e incentivare un qualche ritorno al mestiere di “prestatori” per le imprese; con sperati effetti di crescita dell’economia reale. L’applicazione rigida delle norme di Basilea 3, infatti, avrebbe comportato – secondo le stime più ottimistiche – una sottrazione di quasi 500 miliardi di euro all’economia reale.

Questa decisione assume quindi tutte le caratteristiche di un compromesso – non si sa quanto possibile – tra le esigenze di consolidare i conti delle banche private e quelle di finanziamento dell’economia reale. Se, infatti, si ragiona come liberisti puri, vietando a tutti i paesi di fare “imprese di stato”, l’unica soluzione diventa il finanziamento bancario. Ma se – come in questi sei anni – le banche stesse hanno bisogno di finanziamenti (pubblici, tramite la Bce o la Federal Reserve), allora il meccanismo non può assoluamente funzionare.

E forse nemmeno i compromessi.

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