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Crisi di coscienze… sporche

Qualche anno fa era stato l’ex direttore della Banca Mondiale Joseph Stiglitz, ieri è toccato al presidente uscente dell’Eurogruppo, Jean Claude Juncker, il quale è giunto alla fine del suo mandato di tecnocrate e nel discorso di commiato davanti al Parlamento Europeo ha avanzato la proposta di introdurre un salario minimo a livello europeo per sostenere il reddito dei ceti sociali in maggiore difficoltà nella crisi. “Avevamo detto che l’euro avrebbe riequilibrato la società ma invece la disoccupazione aumenta, oggi è drammatica, ed è una tragedia che stiamo sottovalutando”, ha spiegato agli eurodeputati, alcuni annoiati, altri stupefatti. “Unione economica non significa solo conti in ordine, ma anche società senza squilibri”. La soluzione è quindi nella riscoperta della dimensione sociale, e in misure come il salario minimo garantito: “Altrimenti, per dirla con Marx, perderemmo l’approvazione della classe operaia” ha detto Juncker, il quale, tra l’altro, cita decisamente a sproposito Karl Marx. La proposta di salario minimo era infatti di Ferdinand Lassalle contro il quale Marx condusse un’aspra polemica. Ma Juncker è solo l’ultimo a esternare una crisi di coscienza per le misure “lacrime e sangue” che stanno devastando le società in interi paesi.

Qualche giorno fa c’era stato il mea culpa da parte del capo economista del Fondo Monetario Internazionale, Olivier Blanchard. In un articolo pubblicato dal Washington Post veniva riportato uno studio appena pubblicato dal FMI – a cura dello stesso Blanchard e di Daniel Leigh in the study Growth Forecast Errors and Fiscal Multipliers (IMF WP/13/1) – riconosce che i piani di austerità proposti, o meglio imposti, a mezza Europa negli ultimi anni, sono un danno per l’economia e l’occupazione. Peggio ancora, non funzionano nemmeno per rimettere a posto i conti pubblici, ovvero per diminuire il famigerato rapporto tra debito pubblico e PIL, vero e proprio faro che guida le scelte politiche di tutti i Paesi occidentali.

Fino a oggi il FMI ha segnalato che la strada maestra per ridurre il rapporto debito/PIL era una sola: piani di austerità, tagli alla spesa pubblica, smantellamento del welfare. Se si taglia la spesa pubblica, a parità di entrate diminuisce il deficit e quindi il debito pubblico. C’è però una difficoltà: tagliare la spesa pubblica vuole dire meno investimenti, meno denaro per i dipendenti pubblici, meno servizi e via discorrendo, ovvero una diminuzione del PIL. Da un lato quindi i piani di austerità fanno calare il numeratore, dall’altro però cala anche il denominatore. Il Fmi ha sempre sostenuto che questo non era un problema, era un prezzo da pagare ma nel suo insieme l’economia degli stati sottoposti alle terapie d’urto sarebbe migliorato.

Ma questo ultimo studio del FMI segnala invece che tagliando la spesa pubblica il PIL diminuisce più rapidamente di quanto non diminuisca il debito e il rapporto continua a peggiorare. I piani di austerità non solo sono devastanti dal punto di vista sociale, ma sono nocivi anche da quello macroeconomico. Se oggi anche il FMI ammette di avere completamente sbagliato le sue previsioni, appare decisamente strano – e inaccettabile – che in Italia abbiamo avuto un governo – sostenuto da almeno due partiti, Pd e PdL, che oggi lo contrastano e domani sono disposti a tornare a”baciarlo” – che ha imposto i piani di austerità come un dogma. E nessuna voce si è alzata nei tredici mesi di montismo al governo per dire che era un dogma sanguinoso per lavoratori, pensionati, disoccupati. Lo hanno fatto solo quando il governo si è dimesso, lo faranno in queste settimane di campagne elettorale, lo dimenticheranno subito dopo, quando definiranno le linee strategiche del nuovo esecutivo all’insegna dell’obbedienza ai diktat della troika.


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