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I profeti dell’austerity hanno scoperto di essere finiti in trappola (ma non accettano le critiche)

Il primo, più generale. di Paul Krugman affronta giustamente il modo patetico e falsario in cui i “rigorofili” si difendono dalle accuse che ormai piovono sul loro capo da tutto il mondo.
Il secondo spiega con disarmante chiarezza il perché le borse vadano tanto bene nonostante l’economia globale faccia alquanto schifo. E perché i titoli obbligazionari – di stato o aziendali – siano attualmente beneficati di un ottimismo quanto meno fuori luogo. Semplicemente, alcune banche centrali (Federal Reserve e Banca del Giappone, soprattutto) stanno inondando di liquidità i mercati, stampando moneta a rotta di collo.
Questa pioggia di denaro viene intercettata quasi completamente dalla finanza (banche, assicurazioni, ecc), che quindi corre a mettere in atto nuove operazioni speculative. Che sostengono i corsi azionari e obbligazionari, ma non si riverberano affatto – se non in minima misura, soprattutto nel paesi che più “pompano soldi”, come Usa e Giappone – sulla produzione, altriemnti detta “economia reale”.
Il terzo articolo, infine, rivela come questa voglia di soldi per fare speculazione sia così forsennata da aver spinto una “bolla di debiti” per poter speculare in azioni.
Roba da pazzi in un mondo governato da pazzi.
Una sola previsione si può fare con certezza: un altro “big bang”, tipo quello di Lehmann Brothers nel 2008, è dietro l’angolo.
Tuti e tre gli articoli, sarà un caso, terminano quasi con le stesse parole….
Buona lettura.

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Paul Krugman

Quando si tratta di infliggere sofferenze ai cittadini delle nazioni debitrici, gli “austeriani” sono inflessibili: è un mondo crudele e bisogna fare scelte difficili. Ma quando gli “austeriani” o i loro amici finiscono sotto il fuoco delle critiche, improvvisamente scoprono i pregi dell’empatia e diventano sensibili.

Lo abbiamo visto nel caso di Olli Rehn, il vicepresidente della Commissione europea: i suoi amici a Bruxelles si sono sentiti oltraggiati, oltraggiatissimi, quando ho fatto notare, usando un linguaggio lievemente colorito, che il signor Rehn stava ripetendo una tesi di storia economica che era già stata sfatata più volte.

E lo abbiamo visto recentemente con l’articolo di Anders Åslund sul Financial Times in difesa degli economisti di Harvard Carmen Reinhart e Kenneth Rogoff e contro la critica, definita “brutale”, mossa nei loro confronti da alcuni economisti dell’Università del Massachusetts (sede di Amherst).

In un editoriale pubblicato all’inizio di questo mese, Åslund, un economista svedese, ha elogiato Reinhart e Rogoff per «aver fornito un importante correttivo all’idea che gli stimoli di bilancio siano sempre giusti, una posizione molto diffusa tra gli opinionisti economici angloamericani, in testa a tutti Paul Krugman del New York Times».

È curioso che dica una cosa del genere, perché è una pura e semplice bugia: come sa chiunque abbia letto quello che scriviamo io o gli economisti Martin Wolf, Brad DeLong, Simon Wren-Lewis e altri, la nostra tesi è sempre stata che gli stimoli di bilancio sono giustificati solo quando ci si trova in una situazione di tassi di interesse a zero. Non posso credere che Åslund questo non lo sappia: perché allora si scredita da solo ripetendo una falsità facilmente confutata?

Ma poi, perché definire “brutale” la critica degli economisti di Amherst? Il loro articolo era un’analisi calma e ragionata di come la coppia Reinhart-Rogoff era arrivata a determinare quella famosa soglia del 90%: se a Åslund ha dato l’impressione di essere un’aggressione in piena regola è solo per il contrasto eclatante fra gli elogi che avevano ricevuto i due professori di Harvard e la natura indifendibile della loro analisi.

La mia opinione è che gli “austeriani” hanno scoperto di essere finiti in trappola. Si sono gettati anima, corpo e reputazione personale in difesa dei vari elementi della dottrina economica antikeynesiana: l’austerità espansiva, le soglie critiche del debito pubblico e via discorrendo.

E come dice l’editorialista Wolfgang Münchau, la cosa terribile è che le loro teorie di politica economica sono state messe in pratica, con risultati disastrosi; come se non bastasse, ora si scopre che i loro eroi intellettuali hanno i piedi d’argilla, o magari di Silly Putty.

Per come la vedo io, l’enormità del loro errore è tale che non sono in grado di fornire nessuna risposta ragionevole alle critiche e sono costretti a menare colpi alla cieca, come possono, con attacchi ad personam contro chi li critica o lamentandosi aspramente per la poca urbanità dei loro contestatori.
Ed è da simili piccinerie che è governato il mondo.

© 2013 THE NEW YORK TIMES
(Traduzione di Fabio Galimberti)

da IlSole24Ore

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Mercati, in arrivo 2mila miliardi di liquidità

di Morya Longo
Apple, il colosso dell’iPhone, pochi giorni fa ha emesso il prestito obbligazionario più grande della storia: 17 miliardi di dollari. Non l’ha fatto per investire, o per inventare nuovi rivoluzionari apparecchi. Ha contratto così tanti debiti solo per togliersi lo sfizio di “gratificare” gli azionisti con dividendi e buy-back. E gli investitori non hanno mosso ciglio, se si pensa che la domanda per quel super-bond ha raggiunto i 50 miliardi. Il Rwanda, Paese più noto per i genocidi che per le finanze pubbliche, ha riscosso un successo altrettanto eclatante: settimana scorsa ha emesso un titolo di Stato in dollari (il primo della sua storia), raccogliendo una domanda da 3,5 miliardi a fronte di una richiesta da 400 milioni. E ha pagato un tasso d’interesse (il 6,8%), che più o meno un anno fa era costretta a offrire l’Italia con i suoi BTp. E anche la Slovenia, Paese sull’orlo della crisi, ha riscosso un grande successo con la sua emissione di obbligazioni in dollari.

Ecco l’effetto della più grande iniezione di liquidità che la storia ricordi: ha letteralmente ubriacato i mercati obbligazionari. Negli ultimi 6 anni la quantità di moneta M2 nel mondo è aumentata di 22mila miliardi di dollari secondo i dati Bloomberg. Nel 2013 solo la Federal Reserve Usa e la Banca centrale del Giappone compreranno titoli, iniettando liquidità, per altri 2mila miliardi di dollari. Queste immense “elargizioni” di denaro fresco di stampa hanno avuto l’effetto di abbassare così tanto i rendimenti dei titoli obbligazionari sicuri, che gli investitori sono ormai costretti a comprare qualunque cosa pur di aumentare le performance dei loro investimenti. Ecco perché ai loro occhi anche un bond del Rwanda che offre il 6,8% sembra l’occasione del secolo. Perché non sanno più cosa comprare.

La sagra delle emissioni
All’inizio di aprile è stata la Banca centrale del Giappone ad aprire le danze, annunciando stimoli monetari senza precedenti. Quel giorno è iniziata la più grande stampa di yen della storia. Che si somma alla moneta creata dalla Fed Usa: 85 miliardi di dollari al mese, pari a mille miliardi l’anno. Questa settimana sono state invece la Fed e la Bce ad aggiungere qualcosa: la prima lasciando intendere che il programma di acquisti di bond potrebbe anche aumentare (o diminuire) rispetto agli attuali 85 miliardi mensili, la seconda tagliando i tassi d’interesse allo 0,50%.

L’euforia degli investitori è così andata alle stelle: grazie al denaro facile in arrivo dal cielo. I tassi d’interesse sono scesi ovunque: in questi giorni il rendimento medio delle obbligazioni societarie europee con elevati rating è sprofondato al 2,18% (minimo storico secondo l’indice iBoxx) e quello delle obbligazioni ad alto rischio (high yield) è calato al 6,13% (anche in questo caso si tratta del minimo storico). Idem per i bond dei Paesi emergenti. Questo perché la domanda degli investitori è elevatissima: pur di comprare, accettando infatti rendimenti sempre più risicati. Ormai nemmeno più coerenti con i fondamentali economici.

Tassi così bassi e domanda così abbondante hanno indotto tutti (aziende, banche e Stati) ad emettere obbligazioni per raccogliere denaro a tassi convenienti. Così, secondo i dati di Dealogic, dal 4 aprile (data dell’annuncio della Banca del Giappone) al 3 maggio le aziende di tutto il mondo hanno emesso 204 miliardi di dollari di obbligazioni: mai, nella storia, in queste settimane di aprile erano stati emessi così tanti bond. Il precedente record, del 2011, era di 127 miliardi. Stesso discorso per i Paesi emergenti: insieme al Rwanda, le loro emissioni obbligazionarie dal 4 aprile al 3 maggio sono ammontate a 70 miliardi. Il doppio del record precedente.

Bolla o opportunità?
Il mercato obbligazionario, confrontato con la realtà delle famiglie e delle imprese soprattutto in Europa, sembra sempre più un mondo magico inebriato di liquidità. Totalmente scollegato dalla realtà. Questo, ovviamente, aiuta le imprese (solo le grandi che possono permettersi di emettere bond) e gli Stati: perché permette loro di raccogliere finanziamenti a tassi contenuti sul mercato. L’Italia ormai paga meno del 4% sul debito decennale: troppo rispetto alla Germania, ma comunque poco rispetto alla media storica.

Negli ultimi mesi anche molte aziende italiane hanno potuto raccogliere finanziamenti sul mercato obbligazionario, scavalcando il credito bancario ormai nel freezer, a tassi contenuti. EI Towers ha emesso un bond da 230 milioni il 18 aprile, raccogliendo una domanda da 2,2 miliardi, al tasso del 4%. Indesit da 300 milioni, con una domanda di 1,5 miliardi al 4,6%. E così via: tante emissioni, tanta domanda. «La grande liquidità – osserva Paolo Pascarelli, responsabile high yield origination di UniCredit – sta favorendo il processo di disintermediazione del canale bancario, che in un Paese come l’Italia è salutare, e sta permettendo alle aziende italiane di diversificare le fonti di finanziamento e di allungare il profilo di scadenze del debito».

Ma il problema è nel futuro. Gli investitori vengono sufficientemente remunerati per i rischi che corrono comprando bond come quelli del Rwanda? Quando, prima o poi, le banche centrali saranno costrette a ridurre la liquidità, la bolla che oggi si sta gonfiando rischia di scoppiare? E quando tutti questi bond (che sono debiti, non bisogna dimenticarlo) giungeranno a scadenza, il mercato sarà ancora così esuberante e inebriato da permettere il rifinanziamento di tutti? Domande a cui nessuno sa rispondere. Fin che c’è liquidità, c’è speranza. Poi…

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A Wall Street record di debiti per speculare sulle azioni


Nel 2007 il tasso di disoccupazione negli Stati Uniti era al 4,7%. Oggi è al 7,5%. Nel 2007 solo il 18% di chi perdeva il lavoro restava a casa per oltre 6 mesi. Oggi questa sorte tocca al 38% degli americani. Nel 2007 il debito pubblico Usa ammontava a 9mila miliardi di dollari. Oggi a quasi 17mila. Eppure oggi la Borsa di Wall Street è ben sopra i record del 2007: venerdì ha chiuso al massimo storico, cioè quasi il 7% sopra i livelli pre-crisi. Certo, a trainare Wall Street c’è la recente ripresa economica e la consapevolezza che presto gli Stati Uniti saranno autosufficienti dal punto di vista energetico. Ma questo, da solo, non spiega tutta l’euforia. A favore di Wall Street gioca infatti anche un “aiutino” esterno: l’eccessiva liquidità.

Dal 2007 ad oggi la base monetaria negli Stati Uniti (cioè le banconote e le attività velocemente liquidabili) è aumentata di oltre 2mila miliardi di dollari. Merito della politica monetaria ultra-espansiva della banca centrale. Politica che non accenna a fermarsi: nel 2013 la Fed stamperà infatti altri mille miliardi di dollari circa, al ritmo di 85 miliardi al mese. Tutti questi soldi hanno avuto un effetto dirompente a Wall Street: hanno favorito la speculazione. Hanno montato la panna. E numerosi indicatori lo dimostrano chiaramente.

Un dato mostra la quantità di speculazione sulla Borsa americana più di tutti gli altri: il livello quasi-record di soldi presi in prestito dagli investitori per comprare azioni alla Borsa di New York. I cosiddetti «margin debt» (cioè i finanziamenti usati proprio per comprare azioni) secondo i dati Bloomberg a marzo hanno raggiunto la vetta dei 379,5 miliardi di dollari: questo significa che quel mese gli investitori attivi sulla Borsa di Wall Street hanno preso in prestito una cifra pari al Pil di un Paese come la Thailandia, solo per comprare azioni in Borsa. Si tratta di una cifra vicinissima al record storico di 381 miliardi, segnato proprio nel luglio 2007. Cioè il mese in cui è iniziata la grande crisi finanziaria.

Un altro indicatore mostra quanta liquidità giri a Wall Street: nel 2013 le aziende restituiranno agli azionisti, attraverso dividendi o buy-back su azioni, una cifra record. Almeno 450 miliardi di dollari. Cifra pari al Pil del Sud Africa. Nel solo primo trimestre del 2013 i buy-back annunciati (cioè i riacquisti di azioni) ammontano a 150 miliardi: mai, se non nel secondo trimestre del 2007, le aziende Usa erano arrivate a tanto. I dividendi già annunciati, calcolano gli economisti di Mps Capital Services, superano invece i 300 miliardi. L’effetto sarà immediato a Wall Street: infatti questa liquidità sarà probabilmente reinvestita, facendo salire ulteriormente le quotazioni.

C’è poi un effetto “travaso” dal mercato obbligazionario. Dato che i rendimenti sui mercati obbligazionari sono sui minimi storici ovunque ( sempre
grazie al record di liquidità), sempre più fondi obbligazionari sono costretti a diversificare sul mercato azionario per migliorare le proprie performance. Secondo i dati di Morningstar, sono ormai 352 i fondi classificati come «obbligazionari» che hanno azioni in portafoglio: molti più dei 312 di fine 2012 e dei 283 di un anno fa. Si tratta del record da 18 mesi.

Forse questi dati non significano che a Wall Street ci sia una bolla. In effetti ne esistono altri (per esempio i price-earnings) che suggeriscono la tesi opposta. Eppure sono dati su cui riflettere. Da non sottovalutare. Perché ricordano troppo quegli eccessi che, nel 2007, portarono il mondo alla rovina.

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