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La Cgil dà i numeri su crescita e occupazione, ma non fa i conti

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Se il paese intercettasse la ripresa, quella stessa accreditata per il 2014 dai maggiori istituti statistici, quanto tempo ci vorrebbe prima di recuperare il terreno perso in questi cinque anni di crisi? Esattamente tredici anni per ritornare al livello del Pil del 2007, 63 anni per quello dell’occupazione, ‘mai’ per recuperare il livello dei salari reali. E’ quanto rileva uno studio effettuato da Riccardo Sanna dell’Ufficio economico della Cgil dal titolo ‘La ripresa dell’anno dopo – Serve un Piano del Lavoro per la crescita e l’occupazione’. Un lavoro dove si simulano alcune ipotesi di ripresa, nell’ambito delle attuali tendenze e senza che si prevedano modifiche significative di politica economica, sia nazionale che europea, per dimostrare la necessità di “un cambio di paradigma: partire dal lavoro per produrre crescita”.

Fin qui la citazione dalla presentazione che ne fa il sito della Cgil. Si nota chiaramente come la dinamica dell'(eventuale) aumento del prodotto interno lordo e quella dell’occupazione siano estremamente divergenti: 13 anni per il Pil, 63 per lìoccupazione, “mai” per i livelli salariali.
Chiunque abbia un briciolo di attenzione per i meccanismi sottostanti alle cifre si chinerebbe un attimo per stabilire un legame – matematico o di senso – tra tendenze che sembrano andare per conto proprio. Banalmente, se ai livelli attesi di crescita economica (ma non ancora reale) occorrerebbero 13 anni per recuperare i livelli di produzione antecendenti la crisi e ben 63 per recuperare i livelli occupazionali, è chiaro che la “produttività” del sistema-paese strutturalmente impostata in modo tale che soltanto una crescita ben più esplosiva potrebbe far recuperare un numero di occupati quale quello che c’era sei-sette anni fa.
Il che non è pensabile. Lo sviluppo tecnologico, nei processi produttivi, è tale da ridurre costantemente la quantità di forza lavoro necessaria. Quindi, o si ingigantisce costantemente la quantità di beni prodotti, oppure c’è una inevitabile contrazione dell’occupazione in presenza di un ritmo di produzione fiacco, stagnante, debole. Figurarsi cosa accade quando, come da sei anni a questa parte, c’è addirittura una contrazione della massa di merci prodotta in un paese “avanzato” come il nostro.
Si chiama “disoccupazione tecnologica”. In regime capitalistico è una costante, un sindacato dovrebbe saperlo. Occorrebbe avere una imprenditoria “illuminata”, capace di investire nei settori “alti” e d’avanguardia, in una competizione folle ma forte con altre aree monetarie. E invece abbiamo un padronato che fugge dagli investimenti come dalla peste, che chiede sgravi fiscali e mano libera sulla forza lavoro, puntando sull’estrazione di plusvalore assoluto (tipica dei paesi “arretrati”) invece che di quello “relativo” (da aumento della composizione organica).
E allora: come cavolo si fa a “concedere” a questa imprenditoria stracciona la piena disponibilità allo sfruttamento dei lavoratori, come la Cgil ha fatto anche e forse definitivamente con l’accordo sulla “rappresentanza sindacale”? Secondo quale logica? Quella per cui rimettiamo in piedi l’impresa e poi vediamo se ci concede qualcosa? E quando? Nel 2076?

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