Chi sbaglia, paga. In ambito capitalistico anglosassone, una volta, funzionava così. Poi venne l’epoca dei bailout, dei salvataggi di quelle banche (e assicurazioni) “troppo grandi per fallire”. E pure il capitalismo ha perso il baricentro più solido: il fallimento come normalità del mercato.
Il criterio sembrava rimasto in vigore almeno per i singoli manager. Ma ora scopriamo che non è così nemmeno per quest’ultimo lembo di “selezione in base al merito”…
E la cosa ci riguarda davvero da vicino. Vent’anni fa, infatti, l’Italia – ovvero il ministero del Tesoro – ha sottoscritto otto contratti in “prodotti finanziari derivati” con banche straniere, con scadenze tra il 2017 e il 2040. Non si tratta di un’illazione; l’informazione, molto dettaglia, è contenuta in un documento del Tesoro, trasmesso alla Corte dei Conti e venuto alla luce grazie al più informato dei giornali economici, il Financial Times.
Perché il Tesoro ha compiuto allora un’operazione così rischiosa? In quel periodo l’Italia aveva bisogno di “aggiustare i conti” per centrare gli obiettivi di deficit fissati dall’Unione Europea, riguardanti gli 11 paesi che hanno poi fatto parte del gruppo “fondatore” dell’euro. E quindi il Tesoro pensò bene di coprire l’esigenza con pagamenti in anticipo dalle banche disponibili; otto contratti derivati dal valore nozionale di 31,7 miliardi di euro. Nel 1995, viene oggi ricordato, “l’Italia aveva un un deficit di bilancio del 7,7%. Nel 1998, l’anno cruciale per l’approvazione del suo ingresso nell’euro, il deficit si era ridotto al 2,7%”. Grande successo, apparentemente, ottenuto peraltro senza un aggravio di tasse per i cittadini (che avrebbero, in quel caso, potuto manifestare qualche dubbio sulla convenienza di un passaggio tanto affrettato verso la moneta unica).
I “contratti derivati” avevano una scadenza abbastanza lunga, tale – sembrava da consentire un ripianamento scaglionato nel tempo e poco oneroso per le finanze di un paese destinato a crescere rapidamente proprio grazie all’euro.
Calcolo clamorosamente errato. La crisi finanziaria del 2007-2008 ha fatto “scoprire” che quei contratti erano una “sòla” vantaggiosa soltanto per le banche, visto che condizioni erano da strozzinaggio. In ogni caso, si è imposta la necessità di una drastica correzione di rotta, tra cui una “ristrutturazione del debito”. Naturalmente non gratuita, ma “onerosa”. Appunto gli otto miliardi di “perdite” che ora mancano nel bilancio dello Stato e su cui è stata allertata anche la guardia di finanza. La quale ha effettuato in aprile perquisizioni negli uffici di Via XX Settembre.
Questo buco non è l’unico, visto che il documento citato da Ft si riferisce soltanto alle “transazioni e all’esposizione sul debito nella prima metà del 2012”. Se calcoliamo la fatica che sta facendo Saccomanni per reperire il miliardo che servirebbe per coprire i tre mesi di rinvio dell’aumento dell’Iva, è facile capire che quella che si va aprendo nei conti pubblici è un’autentica voragine creata da un “audace” direttore generale che sembrava saperla più lunga degli altri.
Vi chiederete chi era e se la sua carriera, per questo errore, sia andata in malora. Qui, se permettete, spieghiamo erché all’inizio ci siamo dilungati sui guasti del “capitalismo che non punisce più chi sbaglia”. Quel direttore generale si chiamava Mario Draghi.
È sufficiente?
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