La botta era troppo grossa per essere metabolizzata tranquillamente. In fondo l’ultimo anno è stato “sereno” per i capitali finanziari soltanto perché le immense iniezioni monetarie (anche la Bce ha dato il suo contributo, anche se minore, sotto forma di prestiti a tasso zero) hanno permesso guadagni facili: le banche mettevano a posto i propri bilanci, liberandosi, di parte della “spazzatura”; potevano rifornirsi pagando zero e prestando invece a tassi “positivi”, in alcuni casi (vedi l’Italia) al limite dell’usura. Una pacchia.
Il problema era dove investire tutta questa liquidità. L’economia reale globale – tranne alcune nicchie – ha problemi di eccesso di produzione, quindi non necessita di prestiti per investimenti di dimensioni particolarmente rilevanti. Restavano solo i mercati azionari e quelli dei titoli di stato.
Bernanke ha rotto l’incantesimo. Persino i Bund tedeschi hanno preso a esser venduti, addirittura più di quelli italiani. Come mai? Beh, intanto c’era una bella plusvalenza da incassare vendendo subito (il prezzo dei Bund era ormai tale da garantire un “rendimento zero”, quindi inutile tenerseli ancora); in secondo luogo è tornato il sospetto che l’euro non stia così bene come Draghi e l’Eurogruppo han mostrato di credere. Passi per il salvataggio di Cipro (conclusosi fra l’altro con l’introduzione del prelievo forzoso sui conti correnti, una specie di “arma finale” contro i risparmiatori locali), ma trovarsi di nuovo alle prese con il default greco – accompagnato da una crisi politica interna alquanto seria – non poteva passare sotto silenzio.
La “fuga dal rischio” ha riguardato – un po’ assurdamente – persino l’oro, precipitato sotto i 1.300 dollari l’oncia (era arrivato quasi a 2.000), premiando – per così dire – il dollaro Usa, moneta imperiale che funziona dunque non solo da unità di conto e mezzo di pagamento, ma anche da moneta di riserva. Un posto “buono” dove parcheggiare in attesa di vedere se le nuvole all’orizzonte si diradano.
Un “premio” per modo di dire, si notava, perché questo “rifugiarsi” nel dollaro ne aumenta la quotazione, mettendo dunque a rischio quella crescita economica interna agli Stati Uniti che aveva ripreso un po’ di fiato grazie al dollaro debole che facilitava le esportazioni.
Ma chi potrebbe pagare carissimo la scelta di Bernanke è il Giappone, che resta una delle colonne dell’economia globale. La scelta del conservatore Abe – stampare yen per farlo deprezzare e aumentare così le esportazioni, uscire dalla deflazione puntando a un tasso di inflazione annuo del 2& – rischia di diventare un suicidio. Con Cina ed Europa in evidente rallentamento, Tokyo avrebbe bisogno che gli Usa facessero da locomotiva per qualche tempo, almeno per quanto riguarda l’assorbimento del proprio export. Ma se gli Usa vanno forte, allora Bernanke può chiudere prima del previsto il rubinetto della liquidità. E per le merci nipponiche il mercato statunitense diventerebbe improvisamente meno accogliente.
Si chiamano “contraddizioni”, e ormai ne parla in questi termini anche IlSole24Ore.
Il problema è che, per superare “la contraddizione”, nessuno dispone più di un modello di sviluppo adeguato allo scopo. In ambiente capitalistico, almeno. Quindi si continua a navigare a vista, nella speranza che l’arresto della fonte della liquidità non si traduca in un bagno di sangue. E’ possibile? Secondo Richard Koo, del Nomura Institute (Banca Nomura), no: «c’è una probabilità estremamente bassa che il rientro dalle politiche di allentamento quantitativo risulti indolore».
Quanto dolore, allora?
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