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Il fantasma del default statunitense

 Ma chi l’ha detto che i marxisti sono “catastrofisti”? Semmai sono “crollisti” (perché condividono l’unica teoria economica che vede la crisi capitalistica come una necessità ricorrente, insita nel meccanismo stesso dell’accumulazione, e non come “un incidente del destino cinico e baro”), ma la distinzione – lo ammettiamo – sfugge ai più che leggono ormai quasi soltanto brevi messaggi online.

Al confronto, di questi tempi, i giornali specializzati in analisi economiche abbondano di scenari catastrofici piuttosto dettagliati, anche se l’ipotesi al momento regina – il possibile default degli Stati Uniti – appare remota. Ma non più impossibile.

 L’incertezza che attanaglia anche gli esperti di mercati finanziari deriva da un “punto cieco” che domina tutto il mondo capitalistico attuale (che coincide, lo ricordiamo, con tutto il mondo conosciuto): gli Stati Uniti sono l’unico paese che può per il momento stampare quantità illimitate di moneta senza vederne crollare il valore in proporzione.

 Gli Usa, insomma, e fin dal’agosto del 1971, possono “scaricare” sul resto del mondo i propri problemi economici interni senza subire i contraccolpi che qualsiasi altro paese sentirebbe immediatamente. E lo fanno con grande indifferenza. La loro moneta – il dollaro – risulta infatti contemporaneamente mezzo di scambio interno, moneta di riserva internazionale (depositata in grandi quantità anche in altre banche centrali) e unità di misura per le transazioni di tute le materie prime, oltre che della maggior parte delle merci “strategiche”.

Una moneta dell’imperatore che garantisce molti privilegi, ma che non può essere immortale. Ha i suoi difetti, le sue debolezze, i suoi punti di frattura. È infatti una moneta, un “segno di valore” che al tempo stesso rappresenta una “segno di fiducia” (più spesso “di paura”) verso il paese che la emette. È quindi frutto di un equilibrio politico interno a quel paese, ma anche dai rapporti di forza economica globali; dipende in buona misura anche dal tasso di “serietà” (capitalistica) che la classe dirigente dell’”impero centrale” riesce a conservare. E purtroppo per il mondo quel tasso è sceso parecchio in basso, parallelamente al calo di egemonia globale statunitense (esplicitato al meglio dalla marcia indietro sulla crisi siriana, quando praticamente tutto il pianeta ha detto “no” all’intervento armato contro Assad). Specie se, sulle questioni economiche centrali, come la gestione del debito pubblico, la voce che si fa sentire più forte e isterica è quella dei Tea Party, l’estrema destra repubblicana che fa apparire i nostri leghisti come dei gitanti fuori porta appena appena un po’ rozzi.

L’articolo del perspicace Vito Lops enumera al meglio i molti fantasmi che l’eventuale default statunitense animerebbe nel mondo. Altro che tsunami…

 

Ecco cosa può succedere (per le tasche di tutti) se gli Usa fanno default

di Vito Lops

«Gli Stati Uniti non potranno mai fallire perché all’occorrenza possono sempre stampare moneta». Parola di Alan Greenspan. Essendo considerati gli Usa e il dollaro riserva globale di ultima istanza è tecnicamente difficile dare torto all’ex governatore della Federal Reserve (è però lo stesso che ha detto che è un bene che i mercati dei derivati siano totalmente deregolamentati per poi ricredersi dopo la crisi scoppiata nel 2008). Stando alle parole di Greenspan quindi gli Usa sono nelle condizioni di permettersi di allungare il debito senza far tremar fin troppo gli investitori.

Il problema sorge però se i politici non trovano un accordo sull’ammontare massimo che di volta in volta può raggiungere questo debito. L’ultima soglia è stata stabilità a 16mila 700 miliardi di dollari che verrà sforata, secondo le stime, il 17 ottobre. Ed è per questo che se entro tale data non verrà trovato un accordo tra i due rami del Congresso (democratici e repubblicani) su un innalzamento gli Stati Uniti rischiano tecnicamente il default. Un’ipotesi a cui credono in pochi ma del resto eran in pochi, a partire dallo stesso ceo di Lehman Brothers Dick Fuld, quelli che credevano che il governo avrebbe lasciato fallire la banca in quello che è ad oggi il più grande crack della storia della finanza (640 miliardi di dollari). Della serie, gli Stati Uniti ci hanno abituato a tutto e quindi non si possono dormire sonni sereni nemmeno in questa brutta storia del rischio default.

Ieri i repubblicani hanno lanciato una controproposta: alzare il tetto del debito per sei settimane. Un’ipotesi che ha fatto sorridere Wall Street ma che non può essere considerata la soluzione finale al problema che, quand’anche questo «piano B» andasse in porto, tornerebbe punto e a capo a dicembre.

Cosa potrebbe accadere in caso di default? Il segretario del Tesoro Usa, è stato chiaro: «Porterebbe gli Stati Uniti verso il baratro». Vediamo, dalle azioni ai bond fino ai mutui cosa potrebbe cambiare.

Innanzi tutto è bene precisare: gli Usa sono andati vicini ma non sono mai andati in default. Quindi non esiste un precedente storico. Un fallimento pertanto equivarebbe a finire in un territorio inesplorato, fuori da basi statistiche. Ci sono andati vicinissimi il 2 agosto del 2011 ma alla fine il Congresso ha trovato una soluzione. L’incertezza è costata cara: S&Poor’s, proprio in quell’agosto, ha tolto la tripla A sul debito a stelle e strisce. Il mercato azionario ne ha risentito perdendo in quella estate l’8% della capitalizzazione. In questa nuova tornata, con in più il tapering (piano di riduzione degli stimoli monetari della Fed) alle porte (secondo gli analisti dovrebbe partire a dicembre, almeno è questo scenario che i mercati starebbero ora prezzando) l’ipotesi di vedere Wall Street spumeggiante si ridurrebbero al lumicino. Anzi.

E poi c’è la questione dei bond, i Treasury. In caso di default i tassi non potrebbero che salire aggravando ulteriormente la spirale sul debito (più interessi) colpendo indirettamente anche i mutuatari perché negli Stati Uniti la maggior parte dei prestiti ipotecari è agganciata all’andamento dei titoli di Stato a 30 anni. Si farebbero certo meno mutui (con prospettive a cascata sul mercato immobiliare e sui prezzi della case) anche perché l’economia potrebbe scivolare agevolmente in recessione. Gli Usa sarebbero infatti chiamati a un consolidamento fiscale che ribalterebbe i ruoli: a quel punto sarebbero famiglie e imprese i prestatori di ultima istanza, pagando lo scotto di un maggiore impoverimento. In questa fantascìa le speranze della Fed di portare il tasso di disoccupazione verso la soglia obiettivo (6,5%) rispetto all’attuale (7,2%) sarebbero vanificate. Anzi, si paventerebbe uno scenario di disoccupazione a doppia cifra, lo stesso che peraltro è costretta ad affrontare oggi l’Eurozona.

E l’Europa? Difficile dirlo. Ma certo vedere gli Usa, uno dei principali mercati di sbocco nonché faro dell’economia mondiale in questo momento (nonostante la rottura degli accordi di Bretton Woods), andare in bancarotta non gioverebbe all’economia europea. Tanto per cominciare potrebbero salire i tassi anche sui bond governativi europei e verrebbe a mancare la liquidità statunitense che in questo momento sta trascinando Piazza Affari in particolare.

Perché in questa economia sempre più globalizzata sono tutti competitor ma anche tutti partner. Se casca un pezzo grosso, l’effetto domino è pressoché inevitabile. Soprattutto se a cadere sono gli Stati Uniti. Il Paese “to big to fail” per definizione.

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